Dopo la retata francese sui protagonisti di alcuni fra i più efferati delitti degli anni di piombo, Giampiero Mughini dà la sua lettura. “Questa operazione non scuoterà le coscienze. E la lobby di Lotta Continua è compatta, dubito che verrà a galla una fetta di verità che è stata nascosta per vigliaccheria e opportunismo”
Erano anni di piombo e sangue. La spina dorsale del paese era prona alla barbarie del terrorismo. Perpetrato con la pulsione ideologica di militanti e millantatori di leadership, prima che con le pallottole. La Francia, che prima li ha accolti, ora li consegna. I sette terroristi che parevano destinati al cono d’ombra della storia, sono tornati ad essere di attualità, scompaginando un equilibrio radicato nella dottrina Mitterrand. Da Giovanni Alimonti, passando per Roberta Cappelli e Marina Petrella. Narciso Manenti, Maurizio Di Marzio. C’è un po’ di tutto: ex Brigate Rosse, Nuclei Armati per il contropotere territoriale.
E, soprattutto, l’ex leader di Lotta Continua Giorgio Pietrostefani. Su quest’ultimo pesa un ordine di esecuzione di pena emesso nel luglio 2008 dalla procura di Milano. Quattordici anni, due mesi e undici giorni, per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi. Sono nomi come tanti, questi sette, figli di ricordi in bianco e nero, sanpietrini e ideali tramontati. Chi all’epoca c’era e riesce a dare una lettura non scontata dell’operazione d’oltralpe è senz’altro Giampiero Mughini. Giornalista, conduttore, scrittore ed ex direttore del giornale del movimento Lotta Continua, che lanciò la campagna contro il commissario Calabresi. Quando nel 1987 scrisse Compagni, addio, e fu il primo a rompere davvero con la sinistra degli anni ’70, fu emarginato da quella che lui chiama “la lobby di Lotta Continua”.
Mughini, iniziamo a fare un po’ di chiarezza. Che cos’è, in realtà, la ‘dottrina Mitterrand’?
Penso che fosse un’operazione abile e astuta con cui il presidente francese si presentava bene al cospetto di una parte dell’elettorato di sinistra. Non solo. La dottrina Mitterrand consegnava l’immagine della Francia come uno Stato adatto a ospitare gli esuli politici. Una nazione, insomma, particolarmente attenta ai diritti civili degli imputati. In realtà, qualcuno di quei cosiddetti rifugiati politici non solo venne accolto, venne anche osannato.
Che cosa intende dire?
Basti pensare che una persona come Toni Negri – che terrorista non era, ma che flirtò a lungo con il terrorismo – è riconosciuta come una sorta di autorità morale, e questo la dice lunga. Cesare Battisti: né più né meno di un delinquente di strada, venne trattato come fosse un perseguitato secondo la narrazione dei fatti che lui stesso diede. In realtà, poi, si scoprì che era un pluriassassino.
Bompressi, Sofri, Pietrostefani. L’accostamento generalmente è questo, come una sorta di trinità inscalfibile e indivisibile. Che responsabilità hanno, secondo lei, i tre nell’omicidio Calabresi?
Innanzitutto va chiarito che sono tre persone completamente diverse e ognuno di loro ha avuto ruoli differenti nell’affaire Calabresi. Sofri, a mio giudizio, non ha organizzato l’agguato tanto più che quando accadde il fatto si trovava a Napoli, dove curava il giornale ‘Mò, il tempo si avvicina’ del quale se non ricordo male, ero io il direttore responsabile. Sebbene fosse un giornale pieno di fregnacce. Sofri è stato assolto dall’opinione pubblica di sinistra e, comunque, differentemente da altri si è fatto un bel po’ di anni di galera.
Giorgio Pietrostefani è il nome più altisonante della retata francese. L’ha conosciuto?
Non l’ho conosciuto negli anni più fulgidi della sua militanza milanese. Ho avuto modo di incontrarlo più tardi per motivi professionali. Meno che mai ho conosciuto Bompressi, sincero amico dei proletari a cui venne dato il triste incarico di premere il grilletto alle spalle del commissario.
Poi, in carcere, crollò.
Certo: non aveva l’armatura intellettuale che poteva vantare Adriano Sofri. Non era più il guerrigliero romantico del ’72, e il carcere logora. Ed è anche per questo che sono stato contento quando il presidente Napolitano gli concesse la grazia.
Il figlio del commissario Calabresi, Mario, ha scritto che non riesce a provare soddisfazione nel vedere una persona vecchia e malata in carcere dopo così tanto tempo. Che cosa ne pensa?
Sono d’accordo, in pieno. La questione è bina. Da un lato c’è da considerare che, alcuni di quelli che hanno ucciso allora non hanno ancora pagato. D’altro canto, c’è da considerare che persone di oltre sessant’anni, pagherebbero colpe di trenta o quarant’anni fa. Ci vorrebbe in buona sostanza una forma di amnistia che attenui le situazioni processuali di queste persone. C’è da dire che nessuno dei retori che oggi pongono questioni sull’età dei terroristi intercettati in Francia, si è mai pronunciato, ad esempio, sul caso di Erich Priebke, che aveva quasi cento anni quando venne condannato per un processo in cui lui era solamente un ufficialetto del bestiale esercito occupante.
Secondo lei l’operazione Draghi-Macron scuoterà le coscienze?
Non penso. Anche perché, soprattutto per giovani generazioni, quei sono nomi non evocano nulla. Senza dire che c’è una vulgata di persone che continua a reputarli combattenti romantici figli di quell’epoca. Temo che si riproponga ancora una volta il refrain dei ‘compagni che sbagliano’. Laddove molti di loro, non sono altro che feccia. La feccia della nostra generazione.
Che cos’era realmente Lotta Continua?
Era una realtà complessa, viva, ricca, la più stimolante della mia generazione. Un conglomerato delle migliori forze: da Enrico Deaglio a Marco Boato a Guido Viale. Il loro errore fu quello di incaponirsi nella campagna contro Calabresi, accusato di una cosa mostruosa senza alcun elemento di prova. I più arcigni di loro organizzarono l’agguato che diede il là alla stagione del terrorismo rosso in Italia.
Che cosa è rimasto di tutto questo?
La lobby di Lotta Continua c’è ancora ed è compatta. Purtroppo credo che continuerà a mancare all’appello una fetta di verità su quegli anni che per vigliaccheria e opportunismo non verrà mai a galla.