Nella sua introduzione al rapporto 2020 sulla libertà religiosa nel mondo, il Segretario di Stato degli Stati Uniti, Antony Blinken, non ha parlato di Turchia, dove molto ci sarebbe da dire. Ma sebbene questa fosse soltanto una presentazione esplicativa della gravità trasversale e diffusa del problema, la dichiarazione di Blinken di voler difendere la libertà religiosa è, a dire il minimo, più argomentata di quella di Erdogan
Quando il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, trasformò Santa Sofia da museo in moschea, cercava il suo simbolo di valenza mondiale per candidarsi alla stregua di altri a simbolo politico dei musulmani o forse voleva evitare che i musulmani venissero messi in disparte anche in Turchia?
È questo che vorrebbe indurci a pensare Erdogan? In queste ore il presidente turco infatti ha detto: “L’islamofobia è un virus pericoloso come il Covid. Ci sono Paesi dove è sufficiente essere musulmani è sufficiente per essere etichettati e messi in disparte”.
Erdogan dice una cosa giusta nel modo sbagliato. Lui da presidente di un Paese al 99% islamico avrebbe combattuto l’islamofobia, che esiste, rispettando Santa Sofia, o riaprendo, come anni fa aveva promesso di fare, il grande seminario del patriarcato ecumenico e confiscato dai nazionalisti all’inizio della storia della moderna Turchia, a differenza di quanto era accaduto nell’epoca ottomana, che quel seminario come tanti altri luoghi di culto non aveva mai confiscato. Ma il fallimento del primo disegno erdoganiano, quello di portare il suo Paese in Europa, lo ha portato ad aprire il suo secondo forno, quella della conquista politica dei musulmani sulla base del revanscismo.
Questo pragmatismo oggi gli offre due strade: la popolarità in un mondo arabo islamico senza guida e la penetrazione pan-turca verso Oriente, collegando a sé i vari Khan turcofoni fino alle porte della Cina, Paese tanto decisivo da far dimenticare a Erdogan dell’islamofobia di Pechino nei confronti della minoranza uiguri.
La libertà religiosa, giustamente definita fondamento di tante altre libertà fondamentali e decisive, se rispettata produce rispetto. È il rispetto della libertà religiosa che produce “reciprocità”, non il contrario, e quindi le provocazioni di Erdogan non possono indurre a seguire i suoi metodi. Il numero di moschee esistenti in Germania dimostra il problema italiano, ad esempio, non certo la retorica erdoganiana. Ma come sempre un estremismo ne richiede un altro, e la sua retorica sembra richiedere comportamenti o scelte islamofobiche per capitalizzare politicamente sul revanscismo popolare, fondato o meno che sia.
Altro discorso è quello che proprio nelle stesse ore ha fatto il Segretario di Stato degli Stati Uniti d’America, Antony Blinken. Presentando il rapporto 2020 sulla libertà religiosa nel mondo che il Dipartimento di Stato presenta ogni anno da 20 anni a questa parte, Blinken ha saputo cogliere la trasversalità del problema. La libertà religiosa è negata in Corea del Nord dai cosiddetti eredi di un sistema ateo, trova livelli di criminalizzazione nella vicina Cina e in Birmania ai danni soprattutto di musulmani. Ma atei e militari non sono soli.
La libertà religiosa incontra gravi limitazioni nei Paesi cardine del mondo islamico, quello dell’esportazione della rivoluzione khomeinista, l’Iran, e il suo rivale, l’Arabia Saudita, unico Paese al mondo a non avere un luogo di culto cristiano anche se lì vivono un milione di cristiani. Permane grave in Nigeria e guardando in termini più ampi ci presenta tanto inquietanti quanto diffusi ritorni antisemiti. E questo, ha fatto presente, è solo l’inizio…
Nella sua introduzione al rapporto dunque Blinken non ha parlato di Turchia, dove molto ci sarebbe da dire, viste le reazioni presidenziali al recente riconoscimento statunitense del genocidio degli armeni. Ma sebbene questa fosse soltanto una presentazione esplicativa della gravità trasversale e diffusa del problema, la dichiarazione di Blinken di voler difendere la libertà religiosa è, a dire il minimo, più argomentata di quella di Erdogan.