Dopo qualche titubanza, gli Usa di Biden-Kerry guardano alla carbon border tax europea. Ecco come funziona e perché può rilanciare l’alleanza transatlantica nella sfida alla Cina
Basta il nome a galvanizzare certi ambientalisti e seminare il terrore nel cuore di alcuni industriali. La tassa sul carbonio, o carbon tax che dir si voglia, è (sarà) un’imposta concepita per tassare le emissioni di CO2 (o equivalenti). E se diventasse uno standard europeo da applicare anche a fornitori esterni l’Unione dovrà imbracciarla contro altri Paesi meno investiti nella lotta al cambiamento climatico. Della serie: o ti adegui, o paghi.
Il progetto ha suscitato l’interesse di John Kerry. L’inviato speciale per il clima del presidente statunitense Joe Biden è a Roma, prima tappa (seguiranno Berlino e Londra) della sua seconda missione europea dopo quella di inizio marzo. È quel tipo di misura protezionistica che può tornare utile nel braccio di ferro con la Cina ma che, dipinta di verde, può piacere anche a sinistra. “Il presidente Biden, lo so, è particolarmente interessato a valutare il meccanismo di aggiustamento alle frontiere”, ha detto Kerry in un’intervista a Bloomberg dopo il Leaders Summit on Climate facendo eco a dichiarazioni con toni simili rese in precedenza dalla rappresentante per il Commercio Katherine Tai. “Vuole esaminarlo e vedere se è qualcosa che dobbiamo implementare”, ha aggiunto l’inviato in quell’occasione.
Ma come funziona la carbon tax? L’idea alla base è la creazione di uno strumento da accorpare ai finanziamenti green pensati dall’Ue, da concretizzarsi nei Piani nazionali di ripresa e resilienza dei Paesi europei e nella tassonomia sugli investimenti ecosostenibili (ossia gli standard aggiornati su cosa rappresenti un investimento green) in via di definizione. Il fine ultimo è catalizzare il processo di transizione ecologica.
Due i problemi principali: non tutte le industrie possono fare a meno di bruciare combustibili fossili (per esempio, quelle dell’acciaio o del cemento) e una compagnia può aggirare il sovrapprezzo spostando le operazioni inquinanti fuori dall’Europa, o importando materie più economiche perché prodotte all’estero sottostando a regolamenti sulle emissioni meno stringenti.
Questi sono i motivi per cui il sistema di scambio di emissioni europeo (ETS), vigente dal 2005, favorisce o esclude direttamente le aziende europee ad alto consumo energetico, perché sarebbe impensabile forzarle a emigrare o farle soccombere sotto l’attacco combinato di imposte sulle emissioni e concorrenza sleale. D’altra parte, la transizione sostenibile e gli obiettivi di riduzione delle emissioni significano che questa situazione non può durare – regole più stringenti aumentano il rischio di carbon leakage, la “fuga di carbonio” che deriva dal fare ricorso a realtà meno eco-responsabili.
Perciò a marzo il Parlamento europeo ha approvato una mozione in cui sancisce il bisogno di un meccanismo di adeguamento delle emissioni importate, o carbon border adjustment mechanism (CBAM), che è stato anche menzionato en passant nel Patto europeo sul clima presentato a Bruxelles settimana scorsa. Il progetto è ancora in fase embrionale, ma la Commissione si sta preparando a presentare un testo completo a giugno di quest’anno.
Nella sostanza, il CBAM è una tassa sui prodotti importati in Europa da Paesi con regolamenti sulle emissioni più laschi. È pensata per evitare il carbon leakage, proteggere il mercato europeo dalla competizione sleale e incentivare gli altri Paesi ad alzare le proprie ambizioni climatiche. Secondo il vicepresidente esecutivo della Commissione Frans Timmermans, “se ogni nazione adempiesse agli impegni [sanciti negli accordi di] Parigi, [la tassa] non verrebbe mai applicata”.
C’è, però, una questione internazionale aperta. La vera sfida, infatti, si combatterà sul fronte globale. Dal momento che l’Ue guida la carica della lotta al cambiamento climatico, la prospettiva di una tassa sul carbonio modellata sulle ambizioni europee ha già fatto drizzare i capelli a una moltitudine di grandi Paesi che commerciano con l’Ue: Cina, Brasile, Sudafrica e India hanno già parlato di misure “discriminatorie”, mentre l’Australia ha tacciato l’Ue di “mettere saracinesche attorno alla propria economia”.
Anche l’America sembrava aver parecchio da ridire, almeno fino a qualche settimana fa. Proprio Kerry, durante il suo tour europeo di marzo aveva chiarito che gli Stati Uniti non intendono emulare l’Ue per il momento. E aveva anche chiesto di ritardare il progetto CBAM fino a dopo la conferenza COP26 di novembre, a Glasgow. “[Il CBAM] avrebbe serie implicazioni per le economie, per le relazioni, per il commercio. Penso che sia più un’ultima risorsa”, aveva detto; “lasciamo aperta la possibilità che Glasgow possa essere il momento in cui possiamo convergere su un accordo riguardo a come procederemo, evitando un aggiustamento al confine”.
Almeno inizialmente il CBAM verrebbe imposto solo su certi settori, tra cui acciaio, alluminio, cemento, energia e alcuni prodotti chimici, anche se la lista non è ancora stata definita. Ma se energia e cemento provengono perlopiù dai Paesi limitrofi, acciaio e prodotti chimici sono prodotti scambiati globalmente. Perciò la tassa rischia di colpire Paesi da cui l’Europa importa in quantità, come Cina e Usa.
“Esiste la preoccupazione che l’industria americana possa essere invischiata nella tassazione”, ha detto Samantha Gross, analista di Brookings, a Politico; gli Usa “non hanno un prezzo sul carbonio per l’industria ed è improbabile che ne abbiano uno in futuro”. Ne consegue che l’America, così come la Cina e altri importanti partner commerciali, potrebbero reagire imponendo sanzioni sui prodotti europei.
Bruxelles, comunque, intende andare avanti. Però ha dichiarato che il CBAM sarà preparato in modo da colpire “chirurgicamente” i Paesi che non hanno aderito all’obiettivo zero emissioni nette entro il 2050. Inoltre ha promesso che le misure sarebbero compatibili con le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio, che proibiscono di applicare standard più alti sui prodotti importati rispetto a quelli domestici. In teoria, dunque, il meccanismo sarà progettato per sopravvivere a un contenzioso a livello Omc.
La soluzione proposta dalla Commissione è riformare il sistema ETS per includere le nuove misure sulle emissioni, il che consentirebbe agli altri Paesi di comprare permessi per poter esportare alcuni prodotti. I Paesi con tasse sulle emissioni in linea con quelle europee sarebbero esenti.
Il CBAM nella sua interezza non vedrà la luce almeno fino al 2023. Per ora solo nove Paesi europei su 27 appoggiano l’idea e il dettagli del progetto sono ancora fumosi, ma la Commissione ha fatto intendere che presenterà la proposta a giugno 2021, e la tassa potrebbe essere applicata per alcuni settori già quest’anno.
Gli ostacoli da superare a livello europeo sono relativi alla reticenza di alcuni Paesi particolarmente dipendenti dall’export, come la Germania, che difatti non è tra i firmatari del documento programmatico inviato a Politico. Il rischio concreto è che i prodotti europei, più costosi da produrre sotto il regime ETS rinforzato dalle regole sulle emissioni, diventino meno competitivi all’estero.
Superati questi nodi, c’è l’arena globale. Ma anche l’occasione di rafforzare l’alleanza transatlantica, giocando di sponda con gli Stati Uniti decisi a mettere clima e diritti umani in cima all’agenda per la Cina. Basti pensare alla questione dello Xinjiang e al fatto che l’inviato Kerry abbia indicato in quello in corso il decennio decisivo per la lotta al cambiamento climatico, un’orizzonte che Pechino vede ancora come troppo vicino.