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In Europa parte la battaglia del Fiscal Compact. L’analisi di Polillo

Che il problema del debito in Italia vada affrontato non v’è dubbio alcuno, anche se non va ulteriormente drammatizzato. Quello italiano è indubbiamente elevato, ma dal 2011 il suo ritmo di crescita è stato di gran lunga inferiore a quello dell’Eurozona. Se il debito degli altri Paesi è cresciuto con una velocità maggiore, una qualche ragione vi dovrà pur essere. Il commento di Gianfranco Polillo

È l’inizio di un dibattito a distanza. Quello in cui i principali protagonisti della futura grande battaglia per la modifica del Patto di stabilità compiono i primi passi. In gioco è il Fiscal Compact, considerato che quest’ultima disciplina, che ancora non fa parte dell’ordinamento comunitario, ha inasprito e non di poco le vecchie regole di Maastricht. Regole che già allora Romano Prodi, quand’era presidente della Commissione europea, non aveva esitato a definire “stupide”.

Se quelle con i maggiori margini concessi – un deficit di bilancio non superiore al 3 per cento del Pil – erano così poco intelligenti, cosa dire dell’obbligo del bilancio a pareggio, del deficit corretto per l’andamento del ciclo, della regola della spesa e del debito, e dei mille altri astrusi condizionamenti che la fertile fantasia burocratica di Bruxelles aveva escogitato?

Il presidente del consiglio, Mario Draghi, intervenendo sul Question time alla Camera dei deputati, aveva già fatto conoscere quale sarà la posizione del suo governo, quando, superata definitivamente la pandemia non solo sanitaria ma economica, e ritornati in una situazione di normalità, si dovrà porre mano a quel coacervo di regole e regolette. “La mia linea” aveva detto senza troppi giri di parole, “e non è da oggi, ma da diverso tempo su questo tema, è che le attuali regole di bilancio erano inadeguate e sono ancora più inadeguate per un’economia in uscita da una pandemia.”

Le ragioni di questa presa di posizione sono diverse: una soprattutto. “Nei prossimi anni – ha aggiunto subito dopo – dovremo concentrarci soprattutto su un forte rilancio della crescita economica, che è anche il modo migliore per assicurare la sostenibilità dei conti pubblici.” Problema solo italiano? C’è da chiederselo a causa delle nuove previsioni della Commissione europea. Ancora una volta, purtroppo, l’Italia indossa la maglia nera. Nel prossimo biennio avrà un tasso di crescita inferiore a quello di tutti i Paesi dell’Eurozona. Anche se – si deve subito aggiungere – la differenza è di qualche decimale.

Mentre il fardello, rispetto alla crisi del 2007, rimane ancora oggi ben più pesante: 4 punti di Pil. Il problema, invece, è ben più generale. Riguarda l’intera eurozona. Nel tempo i suoi rapporti con gli altri grandi attori della scena politica internazionale sono notevolmente peggiorati. Negli anni ’80 l’Europa era la prima potenza economica, con una percentuale del Pil mondiale pari al 26 per cento. Quarant’anni dopo è una piccola Cenerentola. Superata dalla Cina e dagli stessi Stati uniti, deve accontentarsi di una partecipazione minoritaria, che non supera il 15 per cento. Un declino che è interamente legato al suo più limitato tasso di crescita complessivo.

L’importanza da attribuire a questi rapporti è tornata alla ribalta a seguito dell’intervento di Wolfgang Schäuble, attuale presidente del Bundestag. Potente esponente della Cdu. Ma soprattutto uomo di punta, come ex ministro delle finanze, nel sostenere la linea del rigore finanziario: a prescindere. Tema che ha nuovamente adombrato, nel suo intervento sul “Il sole” di qualche giorno fa (14 maggio). Titolo: “la disciplina di bilancio è l’unico vaccino per scongiurare la pandemia del debito”.

Dalla sua, indubbiamente, una congiuntura difficile da interpretare. L’inflazione sta crescendo, sulla spinta dei prezzi delle materie prime: non solo il petrolio. Le varie Banche centrali, compresa la Fed, sono, al momento, in codice giallo. Ritengono infatti si tratti di un fenomeno contingente, legato all’improvvisa ripresa, dopo più di un anno di blocco dell’offerta e della domanda. Le imprese devono, in qualche modo, ricostituire il magazzino. La Cina e gli Stati Uniti, a loro volta, sono più avanti nella reflazione; ma tutte le analisi di medio periodo indicano che, con ogni probabilità, si tornerà quanto prima ad una fase di normalità. Cosa alla quale Schäuble non sembra voler credere.

Forte di questa circostanza, ha preferito pertanto riproporre la sua vecchia ricetta. Obiettivo prioritario è quello di ridurre “l’onere del debito pubblico una volta sconfitta la pandemia”. Altrimenti, ma qui sta la novità del suo richiamo, gli Sati Uniti e la Cina che “sono già in vantaggio rispetto all’Europa, che invecchia demograficamente, in termini di produttività e carico di lavoro” vedrebbero aumentare le distanze a loro favore. “Se i Paesi dell’Ue mettessero a repentaglio la loro flessibilità finanziaria a causa di un debito eccessivo”.

Ed ecco, allora, la cura, soprattutto per l’Italia: “spero vivamente che Draghi possa mettere in pratica questo principio per l’Italia” Altrimenti “avremo bisogno di un’istituzione europea che non solo controlli il rispetto delle regole del debito, ma abbia il potere di applicarle”. Se qualcuno pensa alla Grecia di qualche anno fa, è sulla buona strada. Che dire? Che il problema del debito vada affrontato non v’è dubbio alcuno, anche se non va ulteriormente drammatizzato. Secondo tutti i dati disponibili, quello italiano è indubbiamente elevato, ma dal 2011 il suo ritmo di crescita è stato di gran lunga inferiore a quello dell’Eurozona. Se il debito degli altri Paesi è cresciuto con una velocità maggiore, una qualche ragione vi dovrà pur essere.

Per dar forza al suo ragionamento Schäuble si rifà ad Alexander Hamilton, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, che alla fine del ‘700 fu tra i principali protagonisti della Convenzione di Filadelfia. Da primo segretario al Tesoro americano, gestì la situazione debitoria dei singoli Stati trasformando il loro debito in quello federale. Ma di quella complessa vicenda, il presidente del Bundestag, cita soltanto il “fondo d’ammortamento”. Che fu lo strumento per indurre i vari stati americani – allora erano solo 13 – ad una politica di rigore. “I peccatori ostinati del deficit – afferma testualmente – furono messi in ‘insolvenza strutturata’ per prevenire l’azzardo morale scapito degli stati più frugali”.

Ovviamente: tutto vero. Ma quello fu una parte minima dell’azione di Hamilton. La cosa più importante fu il passaggio dalla semplice confederazione di Stati, com’erano gli Stati Uniti prima della Convenzione di Filadelfia, ad una federazione, con un Governo in grado di imporre la propria volontà sulle singole realtà territoriali. Quindi la scelta simbolica di trasferire la capitale da Filadelfia a Washington, per venire incontro alle richieste del Sud. Infine l’avvio di una politica produttivistica, contro l’impostazione fisiocratica dei suoi oppositori. Che significò blocco delle importazioni, per favorire e proteggere l’industria nascente e una politica fiscale – la tassa sul whiskey – per consentire l’acquisizione dei fondi necessari per far funzionare la macchina federale.

Il debito accumulato durante la guerra d’indipendenza fu abbattuto nello spazio di pochi anni, grazie al grande sviluppo economico della federazione. Se ne avvantaggiò anche la Virginia che, come la Germania di oggi, era stata quella che aveva azzerato, fin dall’inizio, il suo debito. Ma non per questo la costruzione del nuovo assetto istituzionale fu funzionale alla difesa esclusiva di quello Stato.


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