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La Pubblica amministrazione è la più grande impresa italiana. Merita un “super” ministero

Oggi la Pubblica amministrazione, compresa la gestione del personale, è spacchettata tra Istruzione, Salute, Enti locali, senza parlare di Università, Esercito, Giustizia. Su economia e gestione interviene la Ragioneria generale al Mef. Siamo sicuri che si tratti del sistema più efficace per gestire le attività che fanno capo a 3,5 milioni di lavoratrici e di lavoratori? Le proposte di Antonio Mastrapasqua, manager e già presidente Inps

La Pubblica Amministrazione (Pa) motore della ripresa del Paese. Non è retorica. Lo stiamo imparando in queste settimane: la realizzazione di buona parte delle sei missioni del Pnrr (Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza) dipenderà dall’efficienza di una Pa “riformata”. Quei 248 miliardi attesi nei prossimi sei anni saranno utilizzati appieno solo se ci sarà una burocrazia efficiente, quindi una Pa orchestrata con attenzione e rigore. Si tratta di un vero e proprio comparto produttivo, che dovrebbe essere considerato come la maggiore “industria” del Paese. Un’industria non manifatturiera, ma specializzata nell’erogazione di servizi. In genere si valuta il “costo” della burocrazia. Ma se il ruolo della burocrazia fosse virtuoso, questo costo per le imprese e per le famiglie corrisponderebbe a una sorta di valore aggiunto (poco meno di 60 miliardi all’anno, in anni normali) a fronte di servizi che valgono complessivamente la metà del Pil. Con quasi 3,5 milioni di dipendenti. La maggiore impresa del Paese.

Si può governare un comparto di queste proporzioni affidandosi a un Dipartimento della Presidenza del Consiglio dei ministri? Questo è quello che accade a tutt’oggi: il Ministro per la Funzione Pubblica è un “ministro senza portafoglio”, privo quindi di uno degli strumenti essenziali di natura economica e finanziaria per fare programmi di spesa, ma anche di risparmio. Snodo essenziale dello sviluppo del Pnrr. Gestione di cerniera tra le diverse amministrazioni dello Stato (e degli Enti locali). Già, è giusto rammentare che quasi sempre parliamo di Pubblica Amministrazione (Pa) al singolare, trattandosi invece di un soggetto plurale, multiplo con centinaia (migliaia) di teste diverse, che comportano organizzazioni diverse, retribuzioni diverse, piattaforme informatiche diverse (che quasi mai dialogano tra loro).

Perché non immaginare di costituire per la Funzione Pubblica un ministero con portafoglio? Si potrebbero concentrare competenze e relazioni in un’unica cabina di regia e controllo, con un dicastero ad hoc, ricomponendo quel caleidoscopio di relazioni istituzionali che si dimostrano sempre motivo di inefficienza. La politica di gestione del personale, l’indicazione certa dei ruoli e dei mandati professionali all’interno delle diverse Pa, lo stesso monitoraggio dell’efficienza nell’erogazione delle prestazioni e dei servizi. Oggi la Pa, compresa la gestione del personale, è spacchettata tra la Pubblica Istruzione, la Salute, gli Enti locali, senza parlare di Università, Esercito, Giustizia. E per ogni considerazione economica e gestionale interviene la Ragioneria generale al Mef.

Siamo sicuri che si tratti del sistema più efficace per gestire al meglio le attività che fanno capo a 3,5 milioni di lavoratrici e di lavoratori?

Il ministro “senza portafoglio” fa parte del Governo e del Consiglio dei ministri, ma non è a capo di un ministero. Il compito del ministro senza portafoglio è quello di contribuire a dare l’indirizzo politico del Governo, all’interno dell’area di competenza affidatagli. Ma svolge il proprio ruolo come gestore di un Dipartimento della Presidenza del Consiglio dei ministri. La sua capacità di incidere è proporzionale alla sua relazione con il premier e alla sua capacità di incidere per forza e autorevolezza personale e politica. Possibile che alla vigilia della tanto attesa riforma della Pubblica Amministrazione ci voglia solo un ministro senza portafoglio?

Siamo sicuri che per riformare la macchina burocratica del Paese si debba continuamente negoziare la gestione delle risorse umane con il Mef per le retribuzioni e con i singoli ministeri di competenza per definire i perimetri di interventi?

Nell’anno della pandemia – e speriamo della post-pandemia – non vale l’argomento conservatore, per cui si dice: “Si è sempre fatto così, dagli anni Cinquanta”. Anche il Ministero del Turismo è stato riproposto, dopo essere stato abolito nel 1993 in seguito a un referendum popolare promosso dai consigli regionali di Trentino-Alto Adige, Umbria, Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Marche, Basilicata, Toscana, Emilia-Romagna, Veneto. Da allora la materia, che poi la riforma del Titolo V ha attribuito alle Regioni, era stata affidata prima a un dipartimento presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, poi a vari dicasteri (dall’Industria, all’agricoltura, alla cultura), nella responsabilità di un sottosegretario, al più di un ministro senza portafoglio.

Ora, proprio quando lo si indica come fattore nazionale di sviluppo e ripresa, il turismo torna a essere – giustamente – competenza di un ministro con portafoglio.

Perché non potrebbe accadere anche per la Funzione Pubblica?



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