Se si vuole scommettere sul futuro, la mediazione del presidente del Consiglio, in tema di blocco dei licenziamenti, è apparsa opportuna. Ponendo fine ad una sorta di guerra di religione. Il commento di Gianfranco Polillo
Si dirà che il mestiere del partito politico è avanzare proposte. Guardare agli interessi del proprio mondo. Coltivare sentimenti di identità necessari per dare voce ad un patrimonio culturale non negoziabile. Tutto vero. Tutto giusto, ma adelante, Pedro, con juicio, si puedes fa dire Alessandro Manzoni, nei Promessi sposi, al Gran Cancelliere di Milano Antonio Ferrer, nel rivolgersi al suo cocchiere, mentre la carrozza fende la folla in tumulto, che manifesta contro la carestia. Altrimenti si corre il rischio di perseverare nell’errore. E mantenere quel trend di crescita che è una vergogna nazionale.
Non è piacevole assistere allo spettacolo della continua rincorsa. La richiesta di introdurre patrimoniali varie, mentre la linea del governo, di cui tutti i partiti fanno parte, meno Fratelli d’Italia, è quella del “dare” e non del “prendere”. Oppure la nuova polemica sui licenziamenti. Ma le scadenze elettorali incalzano. Una lunga battaglia inevitabilmente destinata ad arroventare il clima.
Lungi da noi voler entrare negli interna corporis della presidenza del Consiglio. Interessa poco sapere fino a che punto, nel pre-consiglio, la proposta del ministro Orlando era o no formalizzata. Ciò che conta è la sostanza delle cose. Come intervenire su una realtà che non si presta a facili soluzioni. Su un piatto della bilancia c’è la vita di migliaia di lavoratori (500 mila secondo uno studio della Banca d’Italia) sull’altro la necessità di una corretta utilizzazione delle risorse disponibili.
In passato, sbagliando si pensava ai salari come “variabile indipendente”. Lo aveva teorizzato un uomo intellettualmente onesto, come Luciano Lama, che poi non esitò a riconoscere l’errore. A maggior ragione non si può pensare ad un welfare che abbia le stesse caratteristiche. Tanto più che quello italiano è il più generoso tra i Paesi dell’Eurozona, con un costo che è superiore di 4 punti di Pil, alla media complessiva. Per un valore di circa 60/70 miliardi di euro, all’anno. Ed ecco allora la riproposizione di un dilemma, che si può superare solo coniugando al meglio l’intervento pubblico con le tendenze del mercato.
Il dibattito in corso sui rischi di una ripresa dell’inflazione lascia intravedere un cambiamento di stato. I successi conseguiti nella lotta alla pandemia, i primi segnali del ritorno alla normalità, hanno già modificato le aspettative. Ed il mercato già si appresta a ripartire. Una ripartenza che non sarà tuttavia generalizzata. I diciotto mesi alle nostre spalle non sono stati una semplice parentesi. Hanno modificato le abitudini di consumo, trasformato la logistica, determinato strozzature nell’offerta, come nel caso dei microprocessori.
Ma le modifiche più importanti non si verificheranno tanto nel campo della manifattura che, in linea di massima ha continuato a lavorare, sostenuta dalle commesse estere. Il sommovimento principale sarà nel terziario. Che tuttavia rappresenta quasi il 75 per cento del valore aggiunto prodotto. Quell’agglomerato di attività che è ben più sensibile al mutamento dei gusti e delle abitudini dei consumatori.
Conviene allora bloccare tutto e far finta che nulla possa accadere, o non si deve, al contrario, cercare di favorire quei processi di cambiamento che sono già inevitabili? Perché il mondo intorno a noi è rimasto tutt’altro che immobile. Anzi sulla spinta di uno shock traumatico, come quello della pandemia, ha imboccato strade diverse. Che ancora non si intravedono con la necessaria chiarezza, essendo la risultante di movimenti sotterranei ed il più delle volte molecolari, ma che esistono. E che una politica economica, che avesse l’ambizione di voler governare il ciclo, dovrebbe contribuire a fare emergere, per favorirne l’evoluzione.
Ci sono le condizioni? L’ultimo trimestre del 2020 per l’Italia è stato un disastro, con il crollo del Pil pari all’1,8 per cento del Pil: due volte e mezzo il tasso dell’Eurozona. Si comprende pertanto lo sconcerto che ha accompagnato la diffusione di quel dato nel far percepire l’idea del “si salvi chi può”. Che poi ha prodotto quei tentativi anche un po’ maldestri, che hanno accompagnato le polemiche più recenti e segnato, anche oltre misura, le divergenze tra le forze politiche. Che hanno senso se si guarda indietro. Molto meno se si pensa al domani.
Gli ultimi dati lasciano intravedere più di uno spiraglio di luce, nonostante i risultati negativi del primo trimestre, periodo in cui il Pil dovrebbe aver lasciato sul terreno l’1,2 per cento, per poi recuperare – così assicura Daniele Franco, il Ministro dell’economia – nei trimestri successivi. Ottimismo che trova conferma nelle previsioni della Commissione europea, secondo la quale l’Italia, forse per la prima volta dopo molti anni, torna ad esser competitiva. Nel prossimo biennio, secondo il profilo di crescita trimestrale, sarà seconda alla Spagna, ma supererà, come ritmo medio di crescita, la Francia e la Germania.
E di circa mezzo punto la media dell’Eurozona. Se si vuole scommettere sul futuro, allora la mediazione del presidente del Consiglio, in tema di blocco dei licenziamenti, è apparsa opportuna. Ponendo fine ad una sorta di guerra di religione, consentirà alle aziende di comportarsi come in passato, fino al 30 giugno. Evitando la proroga automatica del blocco dei licenziamenti per altri 60 giorni, com’era nella chiacchierata proposta del ministro Orlando.
Dal 1° luglio, poi, le aziende della manifattura e le costruzioni usciranno dalla Cig Covid-19, il cui finanziamento è sostanzialmente a carico della fiscalità generale. Potranno ancora far ricorso alla Cig ordinaria e straordinaria, senza pagare i contributi addizionali fino al 31 dicembre. Ma durante questo intervallo non potranno licenziare.
Con il passare del tempo, quindi, sempre che le previsioni della Commissione europea si rivelino corrette, al semplice restringimento delle basi economiche del Paese si contrapporranno processi di riconversione produttiva. In grado di riassorbire, almeno in parte, i possibili esuberi. Mentre per l’eventuale differenza si potrà provvedere con la riforma degli ammortizzatori sociali. Sempre che cessi la querelle tra gli autoproclamatisi difensori d’ufficio e si cominci a guardare agli interessi dell’Italia.