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L’onda che assedia i players di petrolio e metano. Il caso Shell spiegato da Clò

L’economista e accademico, grande esperto di energia, a Formiche.net: “La prima previsione è che in pochi anni il prezzo del petrolio potrebbe schizzare alle stelle. Si dà per scontato quello che non è: ovvero che il petrolio non conta più. La transizione energetica ad oggi non sta andando avanti”

Nessuna sorpresa, dice a Formiche.net il prof. Alberto Clò, economista, accademico e grande esperto di energia, a proposito del caso Shell, condannata da un tribunale olandese a ridurre le sue emissioni totali del 45% entro il 2030. “E’ l’onda che assedia i players di petrolio e metano, è uno tsunami che avrà conseguenze, ma attenzione all’effetto di ritorno”, ovvero al fatto che la domanda di greggio nell’anno post Covid sta già risalendo e tornerà ai livelli pre pandemici già a dicembre 2021.

Un dollaro in meno oggi per investimenti e ricerca, significa un barile in meno domani, osserva, prima di mettere l’accento sul quesito più pregnante. “Quel tribunale ha detto che, circa la riduzione delle emissioni, bisogna fare tutto e subito, ma sorge un problema: è possibile?”

Shell, Exxon e Chevron sbalorditi dalle decisioni dei tribunali per il blitz sul clima. Una pronuncia a sorpresa quella olandese o no?

No, nessuna sorpresa, è l’onda montante che da diversi anni assedia le compagnie petrolifere. Dagli azionisti e investitori istituzionali che chiedevano loro impegni precisi sui cambiamenti climatici, sulla riduzione della loro impronta carbonica così da ridurre le emissioni, sulla riduzione degli investimenti nei core business per concentrarsi nelle tecnologie low-carbon, specie nelle rinnovabili. Tranne poi lamentarsi quando tale decisione comportava una minore redditività. Ma l’assedio è arrivato anche dagli Stati e grandi città.

Quali?

Come quello di New York che ha citato in giudizio alcune majors petrolifere chiedendo il rimborso dei danni provocati da eventi atmosferici anomali dettati dai cambiamenti climatici. Così come un tempo è accaduto nei confronti dell’amianto, visto che adesso è considerata acclarata la relazione causa-effetto tra emissioni e clima alterato. Quindi la sentenza olandese si inserisce in uno tsunami che si sta gonfiando progressivamente.

Come reagiranno i mercati di riferimento?

Eventi simili si intensificheranno, si allargheranno, investendo la generalità delle compagnie. Quel tribunale ha detto che, circa la riduzione delle emissioni, bisogna fare tutto e subito. Accelerando gli impegni temporali che la loro quasi generalità si è data. Senza molto curarsi se questo sia possibile e quali siano gli esiti che ne potrebbero derivare. Quasi tutte le compagnie si trovano nelle stesse condizioni di Shell. Anche Eni si è già impegnata ad azzerare le emissioni nette di gas serra entro il 2050 con un passaggio intermedio del -25% entro il 2030. Come verrebbero giudicati tali impegni da una eventuale azione legale? Non mancano poi le contraddizioni.

Ovvero?

Uno dei paesi in assoluto più virtuosi, la Norvegia, ha il fondo sovrano più grande del mondo che da un lato si è caratterizzato per una vocazione ambientalista, ma dall’altro ha aperto alle ricerche petrolifere le acque del Mar Artico: per questa decisione è soggetto ad una denuncia mi sembra alla Corte Costituzionale da parte dei movimenti ambientalisti.

Quale altra sfida quella sentenza aprirà, de facto, per i players energetici?

La sfida sulla capacità dell’offerta di soddisfare la domanda di petrolio. Se le compagnie, come prevedibile, ridurranno ulteriormente gli investimenti – crollati dal massimo di 800 miliardi del 2014 a livelli inferiori ai 300 miliardi – è prevedibile con relativa certezza che nel giro di pochi anni si avrà un forte deficit di offerta, col prezzo del petrolio che potrebbe schizzare secondo JPMorgan a circa 200 dollari già nel 2025. Con prezzi della benzina ben oltre i 3 euro al litro. La contraddizione è che mentre si dà per scontato – quel che non è affatto – che il petrolio sia ormai fuori gioco, osserviamo che la transizione energetica al dopo-fossili è ancora al palo.

Il rapporto Net zero 2050, pubblicato giorni fa dall’Agenzia di Parigi sostiene che bisogna smettere immediatamente di investire in nuovi progetti di ricerca estrazione del petrolio, mentre a inizio anno ammoniva che senza investimenti si sarebbe registrato un supply crunch. La Iea dice tutto e il suo contrario. Il Direttore Esecutivo, Fatih Birol, smentisce se stesso quando chiede alle compagnie energetiche di non investire perché sono sufficienti i giacimenti esistenti mentre intanto la domanda crollerà.

E’ così?

No. Ma in pubblico nessuno lo sostiene. Nell’anno del Covid, secondo una vulgata ormai generalizzata, si sostiene che col crollo dei consumi di energia e delle emissioni si sia toccato in entrambi i cali il loro picco. Ma non è così. La domanda, nonostante una sola parziale riduzione delle restrizioni, è già risalita ai livelli pre pandemici e si prevede che a fine 2021 toccherà oltre 99,0 milioni di barili al giorno contro i 100 del 2019. A sostenerlo è la stessa Agenzia guidata da Faith Birol. Dove sta il crollo allora? La Cina è abbondantemente tornata sopra i livelli pre virus. Inoltre dopo il 2021 la domanda aumenterà, ma Birol ci dice che non servono investimenti.

Dove nasce questo corto circuito, allora?

Dal 2014 gli investimenti nella fase upstream sono crollati. E’ banale dirlo ma serve ricordare che un dollaro in meno oggi per investimenti e ricerca, significa un barile in meno domani. La produzione di petrolio non è come quella di gelati o automobili: ogni anno la capacità produttiva si riduce per un quantitativo pari alla produzione di quell’anno; annualmente i giacimenti, soprattutto quelli più datati, denunciano un declino naturale sino al 7%-8. Gli investimenti servono quindi a rimpiazzare la produzione realizzata, a bilanciare il declino naturale dei giacimenti e infine a coprire l’eventuale nuova domanda. Con gli investimenti attuali è difficile che ciò avvenga.

Con quali effetti?

Se la domanda, come dice Birol, aumenterà e gli investimenti, come dice Birol, si ridurranno, allora nel 2025 avremo un buco di offerta enorme, non rimpiazzabile dalle fonti green. L’aumento della vendita di auto elettriche influirà poco, mentre la ripresa dell’attività economica post Covid aumenterà la crescita economica. Sul punto osservo che, la transizione energetica ad oggi non sta andando avanti come dovrebbe, come osservato recentemente dallo stesso ministro Cingolani, secondo cui di questo passo non riusciremo a raggiungere gli obiettivi di penetrazione delle rinnovabili. Agli attuali ritmi autorizzativi, ha dichiarato, necessiteranno 24 anni per conseguire gli obiettivi fissati per l’eolico e 100 anni per il fotovoltaico. Significa che la dinamica reale delle cose è altro rispetto a ciò che quotidianamente ci decantano.

twitter@FDepalo


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