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Il pilastro del futuro

Il complesso sistema di welfare costruito, nei secoli, in Europa, grazie alla concezione scaturente anche dalla tradizione cristiana, è entrato in crisi perché lo Stato non ha più la capacità, attraverso le risorse dei bilanci pubblici, di fronteggiare le esigenze sempre crescenti avanzate dalla società civile.
Da tempo questo problema è oggetto di interrogativi e si confrontano le posizioni di chi vede come soluzione una svolta di tipo neo-liberista che, favorendo l’espansione del mercato, ipotizza di trarre, dalle crescenti risorse generate, i mezzi atti a dare le risposte in quei campi, e chi, invece, partendo dall’esigenza prioritaria di redistruibire, a volte ancor prima di crearla, la ricchezza, si affanna ad attribuire allo Stato ruoli che ragionevolmente esso non può più assolvere.
In questa manifesta dicotomia, sta prendendo spazio una posizione che sicuramente possiede le premesse per poter affrontare questo problema. Faccio riferimento al variegato mondo del terzo settore che rappresenta un tertium genus rispetto sia allo Stato che al privato, e che costituisce il privato sociale nella sua vivace multiformità: circa 20 milioni di occupati in Europa, dei quali oltre 1 milione e 300 mila in Italia. Questo mondo evidenzia l’esistenza del “terzo pilastro” in grado di fronteggiare la manifesta crisi dello stato sociale.
È del tutto evidente che le potenzialità che questa realtà esprime hanno comunque dei limiti che non sono solo di carattere economico (sebbene il non profit contribuisca all’economia mondiale per oltre 300 miliardi di euro e negli Stati Uniti rappresenti il 6% del Pil) ma, nel nostro Paese, anche normativo e, per alcuni versi, costituzionale.
È noto, infatti, che il sistema di distribuzione dei poteri previsto dalla nostra Costituzione ha improntato l’ordinamento di una concezione secondo cui lo Stato è l’unico soggetto legittimato ad intervenire nei problemi di interesse generale.
Ma oggi il ruolo dello Stato appare ormai inadeguato, poiché le risorse rivenienti dall’imposizione fiscale non sono più sufficienti, specie nei momenti in cui l’economia nazionale non riesce, per effetto anche di crisi di natura internazionale, a dare le risposte che la collettività attende in campo sociale. Ciò scaturisce anche dal crescente standard di civiltà e, quindi, dal maggior grado di tutela, che la società richiede.
Di fronte alla manifesta difficoltà dello Stato, la risposta del terzo settore si rivela come l’unica possibilità di soluzione. Finalmente, infatti, nel nostro Paese è iniziata, sebbene non completata, quella mutazione concettuale che oggi recepisce il contributo positivo dell’iniziativa del privato sociale, della “cittadinanza attiva”, alla soluzione dei problemi propri che sono, poi, anche quelli del Paese.
Perché questo si verificasse, abbiamo dovuto attendere il realizzarsi di due eventi che hanno indubbiamente favorito il pieno dispiegarsi delle potenzialità caratterizzanti il terzo settore: la modifica costituzionale dell’art. 118 con l’introduzione del principio di sussidiarietà e le due pronunce della Corte costituzionale nn. 300 e 301 del 2003 in materia di fondazioni ex bancarie.
Sono due momenti importanti nella storia del lento trapasso da una stagione di centralismo statale ad una possibile ipotesi di risposta alle esigenze del sociale. Ma non bastano. È evidente che il percorso per arrivare ad una pienezza di risultato, che consenta il dispiegamento di quelle potenzialità ancora non completamente espresse del terzo settore, tale da farlo diventare, come detto, il “terzo pilastro” della nuova welfare community che sostituirà integralmente il vecchio welfare state, deve passare attraverso due principali interventi: una modifica del dettato costituzionale, che tenga conto del ruolo del terzo settore nell’ambito della copertura dei diritti sociali, ampliando, cioè, il principio costituzionale di sussidiarietà; e il completamento della tanto attesa riforma del Libro I, titolo II del codice civile recante la disciplina delle persone giuridiche che, evitando il ricorso alle leggi speciali che, a mio parere, sarebbe un grande errore, possa costruire un contesto armonico entro cui venga riconosciuto pienamente il ruolo di tutti gli organismi attraverso cui liberamente si esprime l’iniziativa e la partecipazione dei singoli.
Un terzo intervento, certamente auspicabile, consiste nell’adeguare la normativa fiscale agli attuali standard europei, così da prevedere un regime di favore per tutte le organizzazioni del terzo settore che svolgano un’attività di interesse generale. In questo modo si otterrebbero due vantaggi immediati: una maggiore disponibilità di risorse economiche per questi enti, e la possibilità di svincolarsi sempre più dalla dipendenza, sempre su questo versante, dagli aiuti pubblici o privati.
La mia visione si incentra, dunque, sull’essenzialità del mondo del non profit il quale diviene strumento non solutorio in assoluto dei problemi del welfare state, ma sicuramente assai utile ed in grado di far sì che la collettività dia risposte ai problemi espressi dalla stessa società.
La possibilità di una reale alternativa all’attuale strutturazione del welfare state nella direzione di un sistema effettivamente plurale (welfare mix) passa, dunque, per un’ulteriore crescita del terzo settore, in termini quantitativi e qualitativi, tale da rendere possibile una reale rigenerazione del sistema vigente.
Bisogna, insomma, chiudere la fase caratterizzata dalla prevalenza dello Stato nel sistema del welfare, che pur ha prodotto risultati positivi importanti, e passare ad una nuova stagione in cui venga delineata una rete di garanzie e tutele sociali moderna, efficiente, qualitativamente adeguata e territorialmente omogenea, che sia compatibile con il nuovo assetto istituzionale della Repubblica, sempre più decentrato e federale, con la difficile congiuntura economica e con le molteplici nuove esigenze che emergono dalla collettività. Un sistema snello ed efficiente, finanziato con le risorse liberate dalla sburocratizzazione della Pubblica amministrazione, dall’alleggerimento dei costi della politica, dal recupero dell’evasione fiscale, da riforme strutturali e lungimiranti nella sanità e nella previdenza. Che consideri anche una uscita progressiva, da parte dello Stato, da quei settori specialistici della sanità e dell’istruzione, della ricerca scientifica, dove sarebbe assicurata la competenza dei privati non profit, secondo il criterio ormai imprescindibile della sussidiarietà, così da garantire ampia copertura sociale solo alle persone che effettivamente, e con severi controlli, dimostrano di non avere i mezzi sufficienti per vivere dignitosamente, e con un occhio speciale per le famiglie numerose. Questo mio convincimento è stato rafforzato dall’utilizzo di uno strumento matematico che consente di calcolare, in percentuale, la somma che potrebbe essere risparmiata e che potrebbe essere destinata ad altre voci del bilancio dello Stato.
Per poter offrire un contributo decisivo nella direzione ora indicata, non basta più però l’etichetta non profit o altre equivalenti, ma occorre che il terzo settore ponga in essere una significativa azione di rinnovamento e di miglioramento dell’efficienza al suo interno, sotto il profilo degli indirizzi strategici, ma soprattutto della gestione organizzativa delle strutture, delle attività e del proprio capitale umano, per essere sempre più indipendente dai condizionamenti politici o dal finanziamento pubblico e privato, e legittimarsi, così, in modo trasparente, di fronte ai suoi stakeholder. In altri termini, si tratta di fare ciò che ha fatto egregiamente in questi ultimi anni la Fondazione Roma.
Da qualche anno, la Fondazione che ho l’onore di presiedere ha avviato una nuova modalità di intervento, orientata alla realizzazione di iniziative strutturali, la maggior parte delle quali a carattere continuativo, per rispondere alle grandi emergenze del proprio territorio di riferimento. Nella convinzione, dunque, di dover portare a maturazione, calandoli nella realtà contingente, gli obiettivi indicati dai fondatori, la Fondazione Roma ha progressivamente privilegiato l’opzione per un modello operativo che le ha consentito di sviluppare un’autonoma capacità progettuale, che si confronta ed interseca con quella degli altri protagonisti del tessuto sociale del territorio per dare forma ad interventi di grande impatto sociale.
Perché sono dell’idea che solo operando con convinzione, ed uniti in questa direzione, si potrà dare corpo a quella welfare community da molti a lungo auspicata.


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