Conversazione con Paola Profeta, docente di Scienza delle Finanze all’Università Bocconi e autrice di “Parità di genere e politiche pubbliche. Misurare il progresso in Europa”. L’Italia? Fanalino di coda nell’occupazione femminile, non può perdere l’occasione offerta dai fondi europei per investire in una maggiore uguaglianza di genere (che fa bene anche alla crescita economica)
La pandemia ha fatto esplodere, come hanno certificato gli ultimi dati diffusi dall’Istat, il problema dell’occupazione femminile. Non solo, l’Italia è un Paese sempre più vecchio, con un bassissimo tasso di fecondità che mette a rischio la sostenibilità del sistema economico. Per superare la crisi, allora, secondo Paola Profeta, professoressa di Scienza delle Finanze all’Università Bocconi, e autrice di “Parità di genere e politiche pubbliche. Misurare il progresso in Europa” (Bocconi Editore), è essenziale puntare sulla parità di genere, non solo per una questione di forma, ma proprio di sostanza. Più occupazione femminile, infatti, vuole dire più crescita, più stabilità e l’Italia, fanalino di coda in Europa, non può perdere il treno del Recovery Plan per affrontare i problemi strutturali esacerbati dalla pandemia.
Partiamo dalle definizioni: parità di genere non vuole dire meno uomini, ma più donne (quindi più parità). Perché perseguirla è tra gli obiettivi trasversali che l’Ue ha indicato come essenziali nella formulazione dei Recovery Plan nazionali?
La parità di genere è da sempre un tema essenziale, e purtroppo sappiamo che in tanti Paesi c’è un forte ritardo, in particolare sui tassi di occupazione femminile in cui sappiamo che l’Italia è in forte ritardo. È un tema strategico per l’Unione europea (e non solo) per diversi motivi. In primo luogo perché è provato che c’è una relazione positiva tra la parità di genere e la crescita di un Paese, quindi promuovere la parità vuol dire promuovere la crescita, e in questo momento in particolare, in cui si cerca di uscire dalla pandemia, diventa ancora più importante proprio per l’effetto di traino che potrebbe innescare.
In secondo luogo?
Il secondo tema è legato alla situazione specifica di incertezza che ha caratterizzato il mondo del lavoro e che poi influisce anche nelle scelte individuali. Sappiamo che avere donne sul mercato del lavoro in posizioni decisionali è uno degli elementi per ridurre l’incertezza, anche all’interno delle famiglie. Non a caso il tasso di occupazione femminile è legato al tasso di fecondità. Esistendo questa relazione così forte, bisogna intervenire con politiche e strategie che riescano a far ripartire entrambi.
L’Italia è fanalino di coda in Ue nell’occupazione femminile, il tasso di occupazione è sceso al 48,6% nel 2020. Perché è successo?
È sceso a causa di quella che noi chiamiamo “she-cession”, ossia la recessione al femminile. La crisi pandemica è diversa dalle crisi economiche del passato che avevano colpito soprattutto i settori dell’industria e della finanza, prevalentemente dominati dal lavoro maschile. In questo caso invece a essere maggiormente colpito è stato il settore dei servizi, che vede una grande percentuale di occupazione femminile, e le conseguenze quindi sono state enormi. Questo passo indietro nell’occupazione femminile rischia di portare l’Italia ancora più in basso rispetto alla media europea se non si interverrà adeguatamente.
Come si può intervenire?
Da un lato purtroppo il nostro Paese si porta dietro dei ritardi da anni, che poi sono esplosi con la pandemia, ma di cui la pandemia non è causa principale. Proprio per questo è il momento giusto per affrontarli, da una parte con politiche emergenziali per fermare la caduta dell’occupazione, e questa è l’ottica che finora è stata seguita, ma dovremmo approfittare di questa situazione di discontinuità, di cambiamento e di disponibilità di risorse per andare ad affrontare i ritardi a cui accennavo prima.
Ci fa qualche esempio?
Penso all’investimento in infrastrutture sociali come gli asili nido, che infatti sono previsti dal Pnrr, penso agli incentivi alle imprese al femminile, e anche da questo punto di vista c’è una grande attenzione. Però ci sono altri ritardi storici e persistenti che hanno una natura più culturale su cui è più difficile intervenire, ma che forse dovremmo prendere di petto. Penso ad esempio, al congedo di paternità obbligatorio per ribilanciare i carichi di lavoro all’interno della coppia. Non dimentichiamo che rendere più equilibrato il carico lavorativo all’interno della famiglia porta poi a una maggiore parità di genere nel mercato del lavoro.
Una tassazione più favorevole, la gender tax (pressione fiscale più bassa sul lavoro delle donne), potrebbe aiutare?
Questa è una proposta datata e mai portata avanti, e può essere un elemento positivo di partenza. È una proposta che guarda al lato dell’offerta di lavoro, quindi dal punto di vista delle donne, e noi sappiamo che la maggior parte delle difficoltà non sono dal punto di vista delle donne che non si mettono sul mercato del lavoro, ma dal punto di vista delle imprese che ostacolano l’occupazione femminile o l’avanzamento di carriera. Mi pongo due domande, su questa proposta.
Quali?
Se in tanti anni non siamo riusciti a portare avanti la proposta e non ci sono esempi in altri Paesi di normative simili, forse qualcosa ne blocca l’avanzata. Inoltre, configurata in questo modo pone un problema di gettito e risorse. La proposta originaria prevedeva una riduzione delle aliquote sul lavoro femminile e l’innalzamento di quello maschile e questa era la parte più complicata dal punto di vista di fattibilità politica.
Su che aspetto si potrebbe intervenire, allora?
In questo ambito della tassazione, quello che credo potrebbe essere particolarmente efficace si lega al tema della nascita dei figli, della maternità. La maggior parte delle differenze nel mercato del lavoro non le osserviamo in assoluto, ma quando parliamo delle madri. Mi riferisco al rientro dal lavoro dopo la maternità da parte delle donne. Il tasso di abbandono dopo una maternità, infatti, è molto alto e lì si può pensare a degli incentivi fiscali anche abbastanza sostanziali, mentre al momento l’incentivo è assente se non opposto, con la previsione di prolungamento del congedo di maternità per un periodo molto lungo con una retribuzione più bassa. Ecco, qui si potrebbe intervenire sicuramente.
Parliamo invece di presenza femminile nei ruoli di potere. In che modo può migliorare la condizione delle donne e, di conseguenza, del Paese?
La leadership femminile non è solo una questione di rappresentanza, o numerica, ma è sostanziale. Dai dati che abbiamo a disposizione, risulta che le donne in posizione di leadership prendono decisioni diverse, ad esempio investono più in politiche a lungo termine, come ad esempio l’istruzione, sappiamo che hanno una comunicazione più trasparente e più aperta. La pandemia anche da questo punto di vista ha dato degli esempi a cui fare riferimento.
In che senso?
Nei Paesi in cui ci sono più donne in posizioni decisionali a livello politico si sono chiuse meno le scuole, sono stati messi in campo interventi a sostegno del reddito, delle fasce più povere, uno sguardo diverso. Insomma, l’agenda rischia di essere incompleta se non si include anche lo sguardo femminile nei luoghi decisionali.
È notizia di questi giorni che il Louvre sarà diretto, per la prima volta nella storia del museo, da una donna, Laurence des Cars. Ma come si rompe quel soffitto di cristallo che blocca una maggiore diversità e parità di genere nei ruoli apicali? Penso, ad esempio, alle quote di genere…
Sicuramente le quote sono molto importanti, perché si impone un bilanciamento nella presenza di donne in posizioni apicali. Sottolineo che è bene chiamarle quote di genere, e non quote rosa, perché potrebbero anche essere azzurre un domani, ma al momento sono le donne ad essere in una posizione svantaggiata. Negli studi che abbiamo fatto, comunque, a emergere è che le quote agiscono sempre come elemento di rinnovamento e di miglioramento della qualità delle persone scelte nei vari ruoli di potere.
Ci spieghi meglio.
Lo status quo non è la soluzione migliore possibile, più efficace o efficiente anche dal punto di vista economico. Quando vengono applicate le quote, allora, vengono selezionate donne altamente competenti, con profili professionali elevati sia nei consigli di amministrazione che nell’ambito politico. La qualità delle donne aumenta, e questo fa sì non solo che la qualità media aumenti, ma anche che la selezione degli uomini avvenga di conseguenza in modo più accurato e meno superficiale. Questo è un effetto molto positivo delle quote, che intervengono a correggere una inefficienza iniziale. Oltre al fatto che i Paesi che non introducono le quote difficilmente raggiungono una situazione bilanciata, quindi la doppia valenza: sono sia necessarie che utili.
Chiudiamo con un aspetto molto importante, ossia il fattore culturale. Gli interventi di cui abbiamo parlato, un cambiamento nell’impostazione del sistema lavoro, della selezione per i posti di comando, può avere un effetto anche sulla cultura e sulle pratiche quotidiane?
Sicuramente questo sarebbe l’obiettivo finale, ossia smuovere dei meccanismi culturali che vedano al centro la promozione di role model, di una cultura più aperta alla parità, modelli di riferimento per le giovani donne. Sono aspetti sicuramente più difficili da dimostrare dal punto di vista scientifico, ma nel lungo periodo si riuscirà a capire se e quanti cambiamenti si potranno raggiungere col passare del tempo.