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Mauro Mazza racconta il dramma familiare Ciano-Mussolini

Il Diario dell’ultima notte. Ciano-Mussolini, lo scontro finale (La Lepre edizioni) di Mauro Mazza è un grande romanzo. Soprattutto di verità e di amore per quanto possa sembrare paradossale. Spariscono, chiuso il libro, i personaggi. Restano i simboli e gli echi di feroci battaglie combattute nel campo dell’animo umano. E sembra che una grande pace – ma forse è solo una sensazione – scenda sulla tormenta finalmente placata. La recensione di Gennaro Malgieri

È stato detto molte volte che lo scontro sanguinoso, quasi barbarico, nella famiglia Mussolini-Ciano, al debutto delle disperate contese che segnarono la fine del Fascismo e l’insorgenza di una tremenda guerra civile, può essere, non senza ragione, assimilato a una tragedia greca.

Classico negli stilemi e nei caratteri, l’ultimo atto di quell’irragionevole ordalia che fu pubblica e soprattutto privata, leggendolo ancora oggi, settantasette anni dopo, richiama le grandi composizioni di Eschilo e di Euripide nelle cui opere l’orrore e la pietà sono i soggetti attivi che agitano le azioni messe in scena. Come allora, nei lontani millenni che ci separano dalle rappresentazioni governate dal Fato, l’ultimo esempio che ripropone quel clima e quei sentimenti che guerreggiano senza sosta fino all’atroce epilogo costituito dall’assassinio di Galeazzo Ciano e dalle responsabilità oggettive di suo suocero, Benito Mussolini, prigioniero di un destino fabbricato da altri, ci lascia, per quanto abbandonati dalle passioni che agitarono l’Italia per decenni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, sgomenti di fronte all’intensità crudele della vendetta ineluttabile.

La guerra tra il Bene ed il Male che si fronteggiarono dall’estate del 1943 all’inverno successivo, tra Roma e il Garda, concludendosi nella fatal Verona l’11 gennaio 1944, forse superò in intensità perfino i conflitti che la letteratura greca propone quali esempi esecrabili di empietà sotto i cieli battuti dalla morte e gonfi di lacrime come temporali scatenati da irati Dèi.

Il Diario dell’ultima notte. Ciano-Mussolini, lo scontro finale (La Lepre edizioni, pp.360, euro 22) di Mauro Mazza è difficile definirlo semplicemente un romanzo. Lo è senz’altro nella struttura e nelle suggestioni che rappresenta o evoca, ma è anche un grandioso affresco storico punteggiato da tratti inconfutabili che nulla cedono alle pur comprensibili ragioni della fantasia, della reinvenzione delle vicende narrate, della ricostruzione intima di un dramma che è indiscutibilmente collettivo poiché non lascia indifferente nessuno che vi abbia interesse a scoprire come e perché si sia arrivati ad una catastrofe morale dalle tinte livide quando non mostruose.

Il volume di Mazza è il compendio di una sorta di apocalisse familiare verso la quale non si può restare indifferenti. Essa assume le fattezze di una discesa negli abissi dell’animo umano davanti al quale, come spettatori irretiti, gli italiani riconoscono le profondità dell’odio generato da una insana politica che, più estesamente. avrebbe provocato la morte della Patria incarnata dal disfacimento di un regime, dal tradimento di un sovrano, dallo spirito di vendetta di chi ha partecipato al dominio di un potere assoluto sotto lo sguardo attento di un Demiurgo geniale nella conduzione della cosa pubblica, ma debole e cinico nel governare la tormenta che andava preparandosi fin dalla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, tanto nella società civile quanto nella sua stessa famiglia.

Mazza, con l’abilità del narratore e la sapienza dello storico, segna con questo suo avvincente e brillante romanzo i confini di una guerra fratricida che non risparmia nessuno, situando al centro della scena la più icastica delle forme di sciagura privata destinata a diventare pubblica: il confronto prossimo alla disumanità tra un padre ed una figlia che si disputano la vita e la morte del marito di lei e genero di lui padre dei suoi tre nipoti.

Se dovessimo oggi ritornare a quel 25 luglio 1943 – quando tutto in una notte andò in fumo, mentre le macerie a Roma e in Italia si accatastavano ora dopo ora, grazie ad una guerra dissennata, condotta insieme con un alleato che aveva piegato una grande nazione facendo leva sui sentimenti più lerci della popolazione disperata e perciò incline a venerare la sua mitomania e l’insita crudeltà dei suo scherani, dovremmo concludere che la tragedia consumatasi tra il Convento degli Scalzi a Verona, adibito a penitenziario ed il Poligono di tiro della stessa città dove cinque gerarchi vennero fucilati alla schiena – dovremmo concludere che non c’era materiale di contesta per un’esecuzione. Il Gran Consiglio del Fascismo era stato regolarmente convocato da Mussolini.

Questi aveva letto ed approvato preventivamente la messa in discussione dell’Ordine del giorno approntato da Dino Grandi che se non lo sfiduciava esplicitamente certamente mirava a ristabilire l’ordine costituzionale quo ante visto l’andamento bellico. Lui stesso, il Duce, non aveva ritenuto di aprire i lavori mettendo in guardia il consesso dagli esiti del successo che il documento avrebbe potuto avere. Si trattava di una riunione politica dalle conseguenze politiche. Un tradimento?

Chi tradì fu il re-imperatore che fece arrestare il capo del suo governo. Ed anche in questo caso Mussolini non ascoltò chi gli diceva di non recarsi dal sovrano come gli aveva detto di non convocare il Gran Consiglio. Quel che seguì, dopo le peripezie di Ponza, della Maddalena, del Gran Sasso, di Berlino, di Monaco e infine del Garda è noto e Mazza, non omettendo nulla, ma arricchendo con il suo intuito e la sua fantasia quel che si dipanava tra l’Italia del Nord e la Germania, offre così il quadro intimo, il “dietro le quinte” insomma, della tragedia che si approssimava e della scomposizione di una famiglia avviluppata tra colpe e responsabilità, equivoci, malintesi e perfino odi, tremendi odi che segnarono la vita per mesi della coppia Ciano-Mussolini e dello stesso Capo della Repubblica Sociale, presidente sui generis, guardato a vista dai nazisti che di fatto, unitamente ai più facinorosi che si opponevano ai pacificatori (uno per tutto: Giovanni Gentile), gli impedivano di svolgere le sue funzioni.

Tanto per ricordare: nelle sue mani Pavolini e gli uomini di Hitler impedirono che giungesse la domanda di grazia firmata da Ciano, Marinelli, De Bono, Canetti, Pareschi, Gottardi. Beninteso, dopo aver esautorato il ministro della Giustizia Piero Pisenti e altri gerarchi della Repubblica che con ogni probabilità avrebbero consigliato Mussolini a concedere la grazia. Pavolini, vero Capo della Repubblica Sociale della quale non comprende il senso, gonfio di avidità e animato soltanto da spirito di vendetta, capace perfino di ripudiare la famiglia e di pavoneggiarsi affianco di Doris Duranti, attricetta del regime, preparò con cura l’assemblea di Verona che sancì la nascita del Partito fascista repubblicano, animato dalle terze e quarte file dei vecchio fascismo e tenendo lontano Mussolini stesso. “Questo fiorentino ambizioso – scrive Mazza – che gli eventi hanno catapultato alla ribalta, s’è battuto contro un disegno che gli sembrava politicamente inconcepibile, inutilmente pavido, scioccamente moderato. Dopo l’otto settembre, tra i fascisti c’era chi auspicava un abbraccio – o almeno un buon compromesso – con gli italiani che, in quel passaggio complicato, s’erano schierati col re e con Badoglio. Pavolini aveva bocciato quella specie di rinunciatario e vile epilogo”.

Dunque, di grazia non si poteva certo parlare perché il processo di Verona era e doveva restare un processo politico come politico era stato il “disposto” del Gran Consiglio. Dunque, giuridicamente illegale, realisticamente inevitabile. Il Bene ed il Male. La Vita e la Morte. La pacificazione e l’odio perpetuo. Tutto finì sotto quel cielo turbolento dove Ciano ed i suoi compagni di sventura trovarono morte, Edda con i figli si esiliò in Svizzera ed i famosi Diari dell’ex-ministro degli Esteri che avrebbero dovuto salvargli la pelle utilizzati come moneta di scambio, vennero trattati come carta straccia. I nazisti se ne fregavano ampiamente delle rivelazioni di un gerarca ormai screditato e qualsiasi cosa poteva aver scritto sulla nomenclatura del Terzo Reich e su Mussolini stesso non aveva nessun valore. Ma non erano indifferenti, comunque.

Infatti, al prigioniero Ciano misero affianco una splendida ragazza tedesca, una spia, inquadrata nelle SS, frau Felicitas Beetz, che in quei mesi di gelo mitigò il dolore di Ciano con il suo amore. Impossibile, ma vero.
Sono queste le pagine più intense del libro di Mazza. Che dal romanzo dell’odio, della vendetta e del rancore, come per incanto sboccia nel romanzo dell’amore. E proprio nella città degli innamorati per antonomasia, guarda caso…

Nella squallida cella “l’abbraccia non appena restano soli. Si baciano e sono baci profondi, risvegliano desideri sopiti da tempo”. È l’ebbrezza di un piacere rubato che unisce due corpi. “Lei resta in camicia, la gonna sollevata, le mutandine nascoste nella tasca del cappotto. Dal silenzio obbligatosi scaturiscono sospesi, le labbra s’uniscono, gli umori si confondono…”. Scene che si ripeteranno tutte le volte che Felicitas farà visita al prigioniero. Nasce una passione travolgente. Incuranti delle conseguenze la spia non fa più la spia se non al contrario; il recluso si sente libero tra le braccia di una giovanissima donna innamorata. La tragedia presenta lati sublimi. Paradossalmente.

E così fino alla fine. Fino ai colpi che non centrano i bersagli. Fino ai colpi di grazia. Fino alle lacrime di frau Beetz e all’inquietudine di un soldatino che appare e scompare nel romanzo, Antonio Basso, di guardia al carcere centro della tragedia, che tiene un diario trovato, nella finzione romanzesca, da Mazza, nel quale riassume le sue inquietudini che probabilmente erano le inquietudini di tutto un mondo che fuori dal Convento degli Scalzi guardava al patibolo come al simbolo dell’orrore che teneva prigioniera una nazione, da Nord a Sud, attraversata e funestata da eserciti stranieri, tutti nemici anche se si fingevano amici, quale che fosse l’uniforme che indossavano. Su una Patria morta lo scempio è fin troppo naturale.

Mazza ha scritto un grande romanzo. Soprattutto di verità e di amore per quanto possa sembrare paradossale. Spariscono, chiuso il libro, i personaggi. Restano i simboli e gli echi di feroci battaglie combattute nel campo dell’animo umano. E sembra che una grande pace – ma forse è solo una sensazione – scenda sulla tormenta finalmente placata.



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