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L’inflazione Usa? Aspettando la Fed, Larry Summers non ci dorme la notte

Domani la Banca centrale americana potrebbe fornire al mercato indicazioni su un possibile disimpegno anticipato dagli stimoli all’economia, sull’onda di un rialzo dei prezzi andato ben oltre le attese. E c’è una mina pronta a esplodere: il debito pandemico delle società Usa, che vale poco meno della metà del Pil a stelle e strisce

Forse non sarà un vero e proprio redde rationem, però domani potrebbe essere una giornata importante per le sorti della prima economia mondiale, quella americana. Perché è in programma il Federal Open Market Committee (Fomc), l’organismo della Federal Reserve incaricato di sorvegliare le operazioni di mercato aperto negli Stati Uniti. Da quella riunione usciranno con ogni probabilità le indicazioni della banca centrale, guidata da Jerome Powell, circa la politica monetaria dei prossimi mesi. La quale non potrà non tener conto dell’improvviso (ma atteso, almeno in parte) risveglio dell’inflazione.

L’ultimo dato, quello di maggio, ha destato non poca preoccupazione, anche se non c’è stato il tanto temuto crollo dei listini a Wall Street. Negli Stati Uniti l’inflazione è cresciuta del 5% annuo, l’aumento più alto da quasi 13 anni (anno di Lehman Brothers) che segue l’incremento di aprile del 4,2. Il numero è stato anche più alto delle aspettative, che si fermavano al +4,7%. Gli investitori, comunque, sono preoccupati. Se la Fed dovesse intervenire, con un aumento dei tassi e dunque del costo del denaro, questo vorrebbe dire meno liquidità nel sistema e nell’economia reale, dunque meno crescita.

D’altra parte però, non si possono ignorare gli effetti dell’annuncio da parte di Joe Biden di tre piani pandemici da quasi 5 mila miliardi di dollari a base di sussidi e investimenti, e la crescita americana già oltre le attese, +6,5% a fine 2021, come stimato dalla stessa Fed. Una combinazione che non può non innescare una qualche forma di surriscaldamento dell’economia.  Al momento, sembra ci sia una certo consenso tra gli economisti sul fatto che la Fed manterrà invariata la politica monetaria fatta di tassi zero e di acquisti di titoli, in scia a quando ribadito dalla Banca centrale europea. Ma c’è molto dibattito sulla possibilità che si inizi a parlare, più o meno velatamente, di tapering, vale a dire di inizio dell’uscita dallo stimolo monetario.

La Federal Reserve potrebbe per esempio anticipare il rialzo dei tassi d’interesse al 2023, visto l’aumento dell’inflazione superiore alle attese. A marzo, quando sono state pubblicate le ultime previsioni, la maggior parte dei partecipanti alla riunione aveva dichiarato di attendersi tassi d’interesse vicini allo zero per tutto il 2023. Ma in quell’occasione, i prezzi al consumo erano visti in rialzo del 2,4% nel quarto trimestre del 2021. Da allora, l’inflazione é aumentata e l’economia è cresciuta più velocemente delle attese. Per questo, per rispettare le ultime previsioni dei componenti del Fomc, i prezzi dovrebbero diminuire per il resto dell’anno.

Di sicuro, non c’è da stare troppo tranquilli, perché sotto la cenere c’è una mina pronta a esplodere, ovvero l’enorme debito accumulato, tra bond e prestiti bancari, dalle imprese americane a causa della pandemia e pari, secondo i calcoli del Wall street journal, a 11 mila miliardi di dollari, poco meno della metà del Pil americano. Ora, questi debiti sono stati contratti a tassi decisamente bassi. Un rialzo, seppur graduale, dei tassi potrebbe far scoppiare una bomba-debito.

Prima della pandemia, le società statunitensi si indebitavano pesantemente a bassi tassi di interesse. Quando i lockdown da Covid-19 hanno innescato una recessione, non si sono tirate indietro. Hanno preso in prestito ancora di più pagando ancora meno in termini di interessi. Basti pensare che le sole società non finanziarie hanno emesso 1.700 miliardi di dollari di obbligazioni negli Stati Uniti lo scorso anno, quasi 600 miliardi in più rispetto al massimo precedente.

Proprio in questi giorni, l’ex segretario al Tesoro Usa, Larry Summers, è tornato a esprimere preoccupazioni per l’inflazione americana, alimentata dai piani pandemici di Biden. In un’intervista a Time, intitolata “la preoccupazione per l’inflazione tiene Larry Summers sveglio la notte”, dice di temere soprattutto che gli Stati Uniti possano smettere di essere un Paese effective, che mantiene gli impegni, che porti a termine i programmi.

Dalla mancata raccolta di 7mila miliardi in tasse dovute ma non pagate nei prossimi dieci anni, “una grande perdita per il governo e una grande fonte di ingiustizia visto che il grosso del mancato incasso deriverà da tasse non pagate dagli americani più ricchi”; alla possibilità che si inietti nel mercato troppa domanda rispetto all’offerta potenziale; al surriscaldamento della borsa alimentato dalla “panna montata speculativa delle Spac”. Insomma, il professore di Harvard avverte i democratici: “quando il governo perde il controllo sui prezzi, le persone tendono a perdere fiducia nel governo. Se non saranno in grado di tenere l’inflazione sotto controllo, pagheranno un pesante prezzo politico”.



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