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Ritorno al bipartitismo? Una innocente perdita di tempo. Parla Campi

Il politologo Alessandro Campi in una conversazione con Formiche.net analizza cosa si muove nel centrodestra e nei sondaggi. “Parlare di un ritorno al bipartitismo (anche se impuro, com’era quello italiano basato sull’egemonia della Dc e del Pci, partiti che da soli in certi momenti raccoglievano il 70 per cento del voto), più che un’utopia, mi sembra un’innocente perdita di tempo”

Silvio Berlusconi ha calato l’asso. Coltivando il suo sogno – mai realizzato –  del bipartitismo, chiama i partner del centrodestra a raccolta. L’idea sarebbe quella di un maxi partitone liberal conservatore nel quale convogliare tutte le forze della coalizione. Dopo l’opa di Salvini nei confronti del suo partito, Berlusconi rilancia. Ma gli converrà? E, soprattutto, converrà al centrodestra? Formiche.net lo ha chiesto ad Alessandro Campi, politologo e docente all’Università di Perugia.

 Il Cavaliere ha lanciato il dado. Un piano per un rassemblement dei partiti di centrodestra sul modello dei Repubblicani francesi. Come valuta questa idea? È un progetto percorribile o una sparata per uscire dal cono d’ombra? Oppure – peggio ancora – il canto del cigno per Forza Italia?

Non è un’idea, una provocazione politica, una proposta o un progetto. È solo – nello stile tipico di Berlusconi – un rilancio al buio, ovvero una mossa pensata a suo esclusivo vantaggio. Con la differenza che ai tempi del predellino guidava un partito del 30%, oggi un partito che vale la metà della metà. Chi dovrebbe guidare questo rassemblement? Lui stesso? O si limiterebbe ad essere il padre nobile, una sorta di presidente onorario? La realtà è che per Forza Italia e il suo fondatore si sta avvicinando la fine di un ciclo. Nessuno, Berlusconi in testa, si è mai preoccupato di come dare continuità a quell’esperienza. Adesso, per impedire che tutto frani, ci si vorrebbe diluire all’interno di un contenitore più grande che però, a parte il Cavaliere, nessuno degli altri suoi alleati in questo momento ha interesse a far nascere. Meloni vola da sola nei sondaggi. Quanto a Salvini, proprio per contrastare Meloni, è interessato semmai ad un accordo tattico con Forza Italia (la cosiddetta federazione), ma solo per poter dire, sommando in Parlamento i suoi voti a quelli di Berlusconi, che è ancora lui il leader più forte all’interno della coalizione di centrodestra. Ma di sciogliere la Lega non ha ovviamente nessun interesse. E dunque di questo ipotetico “partito unico” non se ne farà niente.

L’atteggiamento dei partner di coalizione è abbastanza ondivago. Da un lato il leader della Lega che aveva proposta una federazione con i forzisti ma che a questa proposta di unione non sembra interessato. D’altra parte Meloni ha già dichiarato il suo niet. Il Cavaliere rischia di isolarsi e di perdere ulteriore terreno oppure la coalizione rimane salda? Peraltro anche la nuova formazione lanciata da Toti e Brugnaro – Coraggio Italia – ha deciso di sfilarsi…

L’idea buona, a suo tempo, era stata quella del Popolo della Libertà, nato dalla fusione tra Forza Italia, Alleanza nazionale e altri gruppi minori (cattolico-liberali, socialisti-riformisti, ecc.). Poteva essere quello l’inizio di un percorso che avrebbe potuto portare in prospettiva al partito unico o unitario della destra italiana. Ma Berlusconi, una volta nato il nuovo partito nel marzo 2009, volle tutto il potere per sé: all’epoca si sentiva invincibile e immortale. Ne nacque il conflitto mortale con Fini e sappiamo tutti come è andata a finire: il capo della destra del tempo è scomparso traumaticamente dalla scena, ma da quel momento il declino di Berlusconi e del suo mondo non si è più arrestato. Fallita quell’esperienza, oggi nessuno ha interesse a riprovarci: si rischierebbero, magari a parti invertite, analoghi conflitti. Meglio tenersi l’attuale coalizione di centrodestra: uniti, ma indipendenti, alleati, ma ognuno padrone a casa sua. Peraltro è una formula che elettoralmente funziona.

Secondo lei questo tipo di mosse che tipo di riverbero hanno sull’elettorato del centrodestra?

In realtà, poco o nulla, in termini di numeri assoluti. In questi mesi c’è stato certamente un travaso dalla Lega verso Fratelli d’Italia, ma il consenso si è semplicemente redistribuito all’interno della stessa area politica. L’elettorato di centrodestra, per quanto sociologicamente articolato, ha sempre avuto una sua unità sul piano, per così dire, psicologico e della mentalità. Parliamo di un blocco elettorale – in senso lato improntato all’anticomunismo, alla difesa talvolta anche un po’ bigotta e ipocrita della tradizione sociale e della morale religiosa, diffidente nei confronti della partitocrazia repubblicana, poco sensibile alla retorica istituzionale sull’antifascismo, oscillante tra cultura dell’ordine e un individualismo di fondo – che il centrodestra inventato da Berlusconi ha in gran parte ereditato dalla Democrazia cristiana e dal fronte dei partiti cosiddetti laici (dai liberali al socialismo craxiano). In tutti questi anni questo blocco, socialmente assai solido, è rimasto politicamente più unito dei partiti (e dei leader) che lo hanno rappresentato. Chi, tra gli elettori del centrodestra, ancora ricorda i litigi mortali tra Fini, Berlusconi e Bossi come può farsi impressionare negativamente dai contrasti che oggi certamente esistono tra Salvini e Meloni?

Il sindaco di Verona Federico Sboarina ha deciso di aderire a Fratelli d’Italia. Il partito di Giorgia Meloni si insinua anche in uno dei punti strategici della Lega veneta. È uno smacco per Salvini?

La Lega, quando era in ascesa, ha attratto a sé molti esponenti, vecchi e giovani, della destra italiana post-missina. Alcuni perché consideravano le posizioni di Fini troppo annacquate rispetto a quelle tradizionali della destra “legge, ordine, tradizione, patria e famiglia”. Altri, uscito Fini di scena, perché pensavano che l’esperienza di un partito di destra forte come era stato Alleanza nazionale non fosse più ripetibile e che si rischiasse perciò una nuova marginalità. Oggi alcuni di loro, come credo sia il caso di Sboarina, stanno tornando, per così dire, alla radici, ovvero nella loro casa politica di un tempo. Con Meloni leader in ascesa di Fratelli d’Italia, che è un partito erede diretto della destra post-missina e di Alleanza nazionale, non hanno più bisogno della Lega come rifugio o àncora di salvezza. Certo, Salvini non la prenderà bene, ma fa parte del gioco. Lui d’altronde, con la proposta di una federazione insieme a Berlusconi, non sta forse provando a portarsi via un po’ di parlamentari e dirigenti di Forza Italia?

Il progetto di un grand old party rischia di abortire prima ancora di nascere. Ma secondo lei questo malumore provocherà qualche scricchiolio per la stabilità del governo?

Questo è un governo che per definizione non può essere messo in crisi dai conflitti interni ai partiti o alle coalizioni. Anzi, tra i motivi per cui è nato – dopo l’impasse in cui era finita la maggioranza che sosteneva il Conte bis – c’è proprio quello di permettere ai partiti di rimettersi in sesto, di ridefinirsi sul piano progettuale, di trovare nuovo equilibri al loro interno e tra di loro.

In un panorama politico così fluido, è ancora immaginabile un bipartitismo puro o è mera utopia?

I sondaggi sul voto che circolano da mesi spesso vengono letti nella logica banale del chi guadagna e chi perde. Oggi sale Meloni e scende Salvini, domani sale Letta e perde Grillo (o forse Conte, o forse Di Maio, ancora in quel partito non s’è capito chi comanda.). È un giochino che funziona mediaticamente, ma che si lascia sfuggire il dato politico essenziale. In realtà, ciò che emerge dalle rilevazioni è l’esistenza di quattro blocchi socio-elettorali – Lega, Fd’I, Pd e M5S – collocati potenzialmente intorno al 20%. Col restante 20% diviso tra le formazioni minori: Forza Italia, Sinistra, Azione, Italia Viva, Verdi, +Europa. Non c’è al momento nessun partito che lontanamente si avvicini al 30% e che possa dunque aspirare ad un ruolo egemone o condizionante. I primi quattro partiti sono sostanzialmente equivalenti, al netto delle oscillazioni congiunturali. Se consideriamo anche gli indecisi o coloro che dichiarano di non votare – almeno il 35% degli italiani – emerge chiaramente quanto deboli siano oggi i partiti in Italia, in termini di radicamento sociale prima ancora che di consenso, e quanto frammentato sia di conseguenza il sistema partitico. Insomma, la gara ad essere il primo partito grazie ad uno zero virgola in più, che tanto sembra appassionare i commentatori, non può nascondere il fatto che anche il partito sulla carta più forte in realtà rappresenta una minoranza degli italiani votanti (se va bene il 15 per cento). In un contesto simile, parlare di un ritorno al bipartitismo (anche se impuro, com’era quello italiano basato sull’egemonia della Dc e del Pci, partiti che da soli in certi momenti raccoglievano il 70 per cento del voto), più che un’utopia, mi sembra un’innocente perdita di tempo.

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