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Licenziamo il divieto di licenziamento. L’appello di Cazzola

È tempo che questa messa in scena che non ha impedito la perdita di quasi un milione di posti di lavoro, finisca anch’essa nell’archivio delle misure di ristoro al tempo del Covid. Il commento di Giuliano Cazzola

Mentre i sindacati annunciano una grande giornata di lotta sabato 26 giugno a Torino, Firenze, Bari per ottenere la proroga del blocco dei licenziamenti e l’avvio di un confronto sulle pensioni, il Parlamento ha in corso i lavori per la conversione in legge del decreto Sostegni bis, dove sono incluse anche le norme che avviano la chiusura del regime del blocco il quale, a dire la verità, è durato troppo a lungo.

Nel dibattito parlamentare non si vedono emergere posizioni di ulteriore modifica della proposta di mediazione avanzata dal premier Draghi quando ha dovuto rimediare al colpo di mano del ministro Orlando che aveva concesso un’apertura vistosa alle richieste dei sindacati, proprio nelle stesse ore in cui veniva convertito il primo decreto Sostegni recante, in materia di licenziamento, la disciplina programmata in occasione della proroga di fine marzo.

Per memoria ricordiamo quanto prevede ora il decreto all’esame del Parlamento: i settori (nei fatti l’industria e l’edilizia) che possono avvalersi degli ammortizzatori sociali rientrano nella normalità dal 1° luglio, ma se licenziano dovranno pagare di tasca propria la cig aggiuntiva che, in caso contrario, verrebbe erogata gratuitamente. Gli altri settori devono aspettare il 1° novembre, ma sarà loro possibile disporre della cig in deroga fino a tutto il 2021. In Parlamento quasi tutti i partiti hanno presentato degli emendamenti, di carattere estensivo, ma non hanno trovato un accordo su di una posizione comune.

Ed, è presumibile quindi che, in proposito, il decreto esca convertito nello stesso modo con cui è entrato. E che questa messa in scena che non ha impedito la perdita di quasi un milione di posti di lavoro, finisca anch’essa nell’archivio delle misure di ristoro al tempo del Covid. Intanto, sta prendendo piede un dibattito sulla adeguatezza delle retribuzioni in Italia, a giustificazione del fenomeno singolare per cui – pur essendo diminuiti gli occupati, aumentati i disoccupati, esploso il numero dei neet – le aziende dichiarano di non trovare personale disponibile ad essere assunto.

Il caso del turismo, uno dei settori più colpiti dalle restrizioni, che storicamente si avvale di assunzioni a termine (per la durata delle stagioni turistiche estive ed invernali) lamenta gravi difficoltà nel reperire organici adeguati. In verità è da anni che il turismo funziona grazie al lavoro degli immigrati. Adesso, però, con la maggiore complessità degli spostamenti e dei viaggi, anche questo canale fatica ad assicurarsi il fabbisogno. La risposta dei sindacati non fa una piega: i lavoratori stagionali guadagnano troppo poco e lavorano troppo.

Una volta il lavoratore aveva interesse a lavorare e a guadagnare nel tempo più breve possibile nei mesi estivi per svolgere diverse mansioni negli altri o riprendere gli studi, dopo la pausa estiva. Si conferma poi il solito andazzo: si prende come riferimento il “lavoro povero” che, sui media, diventa il prototipo del lavoro tout court. E’ stato così per il cococo; poi sono venuti gli addetti ai call center, seguiti dai riders e infine – in conseguenza pure di uno sciagurato episodio che è costata vita ad un sindacalista – i nuovi dannati della terra sono gli addetti della logistica, un settore cresciuto in modo tumultuoso proprio in conseguenza della pandemia.

E non conta dimostrare che – se i salari sono bassi – è responsabilità dei trend dell’economia, della tassazione del lavoro e del reddito, nonché del modello di contrattazione collettiva che si ostina a privilegiare – anche come autorità salariale – il contratto nazionale di categoria nel cui ambito – diversamente dalla contrattazione di prossimità – non si realizza più uno scambio apprezzabile e congruo. Se un datore di lavoro ha delle risorse da investire sul capitale umano ha interesse a valorizzare i suoi collaboratori e a pagarli meglio per ottenere un lavoro migliore.

Le differenze di retribuzione rispetto a quelle di altri paesi costituiscono l’altra faccia della medaglia del differente livello di produttività del lavoro (si prenda nota: del lavoro non dei lavoratori), che è il gap più serio del nostro Paese. Basta leggere quanto Mario Draghi ha scritto nella prefazione al PNRR. “Dietro l’incapacità dell’economia italiana di tenere il passo con gli altri paesi avanzati europei e di correggere i suoi squilibri sociali ed ambientali, c’è l’andamento della produttività, molto più lento in Italia che nel resto d’Europa. Negli ultimi vent’anni, dal 1999 al 2019, il Pil per ora lavorata in Italia è cresciuto del 4,2 per cento, mentre in Francia e Germania è aumentato rispettivamente del 21,2 e del 21,3 per cento. La produttività totale dei fattori, un indicatore che misura il grado di efficienza complessivo di un’economia, è diminuita del 5,8 per cento tra il 2001 e il 2019, a fronte di un generale aumento a livello europeo’”.

Infine, vi è troppa disinvoltura nei confronti di una ripartenza dell’inflazione; c’è troppa moneta in circolazione; poi vi sono effettive difficoltà – post Covid 19 – nell’approvvigionamento di materie prime strategiche, che potrebbero preludere ad un’inflazione da costi. Se dovesse aggiungersi una campagna di incrementi salariali a produttività invariata, l’inflazione potrebbe scappare di mano in un breve arco di tempo.


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