Ci troviamo con un premier nemmeno lontanamente indicato dagli elettori ma di formidabile autorevolezza e di innegabile capacità operativa. Ma dovremo rispondere davanti all’Europa (ed al mondo intero) su chi ci sarà dopo di lui. Il commento di Roberto Arditti
Siccome la stagione di governo a guida Draghi può durare ancora un po’ ma non all’infinito, conviene chiedersi da subito cosa verrà dopo, sapendo che al più tardi nella primavera del 2023 dovremo rispondere davanti all’Europa (ed al mondo intero) a questa domanda.
Il tema però è ancor più spinoso se si tiene in giusta considerazione il fatto che la situazione attuale è del tutto anomala, poiché ci troviamo con un premier nemmeno lontanamente indicato dagli elettori ma di formidabile autorevolezza e di innegabile capacità operativa, sostenuto da una maggioranza del tutto anomala e capace di contenere (momentaneamente) soggetti politici per loro natura incompatibili, il tutto in presenza della coda di una pandemia mondiale che non solo ha sconvolto lo scenario internazionale (ad esempio determinando il cambio d’inquilino alla Casa Bianca) ma che ha anche condotto l’Unione Europea al varo di un gigantesco piano di sostegno agli Stati impensabile fino al 2019.
Draghi quindi è la miglior risposta che l’Italia poteva dare per reagire in modo eccezionale ad una situazione eccezionale, ma proprio per questo occorre guardare con lucidità a cosa potrà accadere dopo le prossime elezioni, quando cioè i partiti torneranno (probabilmente) a dividersi.
Eccoci allora giunti alla domanda cui tento qui di rispondere, che è semplice semplice: l’Italia è pronta al “dopo Draghi”?
Ebbene la mia risposta è che non solo non siamo pronti, ma siamo anzi ben lontani dall’avvicinarci all’obiettivo, il che mi preoccupa non poco e lo stesso effetto dovrebbe fare un po’ a tutti i protagonisti della vita pubblica italiana.
Cominciamo da sinistra, cioè da quell’area politica che dovrebbe vedere l’accordo tra Pd, M5S ed altre forze minori, sia di centro che più radicali (Azione, Italia Viva, Leu e così via). Qui lo scenario è di estrema confusione, perché condizionato in modo massiccio dal caos assoluto in cui è precipitato il movimento, di cui lo scontro Grillo-Conte di queste ore è solo la punta dell’iceberg.
Certo, il Pd rimane il più solido (ancorché litigioso) pezzo di establishment presente sulla scena, ma è assai improbabile che ciò basti per curare le ferite dei grillini trasformandoli in stabile alleato di coalizione riuscendo al tempo stesso a tenere unite tutte le altre componenti, soprattutto alla luce del fatto che la sinistra (intesa nel senso più largo e post-moderno) ha qualche chance di vincere se riesce ad andare da Calenda e Renzi fino a Grillo e Speranza (passando per Conte, Letta, Franceschini e Bonaccini): impresa allo stato quasi disperata, come dimostra lo schieramento al primo turno delle elezioni a sindaco di Roma, con Raggi, Gualtieri e lo stesso Calenda ai blocchi di partenza.
E sia chiaro peraltro che il tema riguarda non solo la formazione delle liste elettorali (dove forse il terrore di restare fuori può fare miracoli), ma attiene innanzitutto alla capacità concreta di questa variopinta “alleanza” di prendere in modo credibile il testimone dopo due anni di governo di un certo Mario Draghi, non so se mi spiego.
Andiamo ora a destra, dove la situazione è per alcuni versi meno complessa (ma non per questo ben assestata). Qui c’è una maggiore omogeneità sui contenuti ed anche un qualche vantaggio in termini di bacino di consenso, ragioni per le quali un successo alle prossime elezioni è seriamente ipotizzabile. Al tempo stesso però sono presenti due ostacoli assai difficili da superare e che richiederanno enormi sforzi da parte di tutti i dirigenti politici interessati.
Il primo è che vi sono due leader energici e giovani alla guida dei due partiti più importanti. E per di più Meloni e Salvini raccolgono più o meno la stessa quantità di voti. Siccome uno solo è il posto da premier è quindi già bene evidente a quali tensioni sarà sottoposto un eventuale governo di destra. Poi c’è un tema internazionale tutt’altro che banale.
Perché se è vero che (da parte di Meloni soprattutto) sono in corso grandi sforzi nei contatti dentro e fuori l’Europa (recentissimo l’ingresso della leader di Fratelli d’Italia in Aspen Institute, che ha Giulio Tremonti alla presidenza della sezione italiana) è altrettanto vero che la componente Ppe della colazione è ora quella più debole, mentre storicamente è sempre stato il contrario (con tutto ciò che ne consegue).
Insomma a destra come a sinistra c’è molto, moltissimo da fare per arrivare pronti all’appuntamento con il governo. Il “dopo Draghi” è quindi tutto da inventare. E non pare una buona notizia.