Il sistema “diversamente democratico” è sostenuto da una schiacciante maggioranza del popolo cinese. Chi lo dice? Il regime. Il commento di Laura Harth, campaign director di Safeguard Defenders e liaison regionale Ipac
Da alcuni mesi il mio sabato mattina era riservato alla scrittura dell’editoriale del lunedì sull’Apple Daily di Hong Kong. Un esercizio non sempre facile, in quanto il senso dell’impotenza e l’irrilevanza dinanzi quanto vivono i suoi cittadini quotidianamente si è rafforzato in modo esponenziale durante quest’ultimo anno.
Ne sono stati testimoni gli editoriali di mezzo mondo in questi giorni. Riassumere nel limite delle battute consentite il rovescio completo di un sistema governativo nel giro di un solo anno è un compito arduo, se non addirittura impossibile. Un anno fatto di arresti quasi quotidiani, di processi sempre più di facciata, di notizie che spezzano il cuore. A raccontarlo, infatti, parlano più chiaramente le emozioni. I tanti messaggi di profonda tristezza, le immagini disperanti dell’esodo in corso all’aeroporto di Hong Kong, l’attentato a un poliziotto e il successivo suicidio pubblico – piantando letteralmente il coltello nel cuore – di un cinquantenne. Lo spazzar via dei fiori bianchi sul luogo il dipinto plateale della morte di “Un Paese, Due Sistemi” a un anno dell’imposizione della Legge di sicurezza nazionale.
Il tutto con il sottofondo delle celebrazioni orchestratissime del centenario del Partito comunista cinese. Lasciamo da parte qualche commento stucchevole e concentriamoci su quei mantra più insidiosi nella stampa nostrana.
Bon ton, infatti, vuole che nonostante le critiche crescenti internazionali nei confronti del Partito comunista cinese, esso goderebbe di un forte consenso interno. Una ripetizione acritica della propaganda del Partito stesso, che non perde occasione di ribadire come il suo sistema “diversamente democratico” sia sostenuto da una schiacciante maggioranza del popolo cinese. Impossibile ovviamente verificare dato che il Partito non ci pensa neanche lontanamente, ad appurare la tesi attraverso elezioni libere (anzi, dopo la vittoria del campo pro democrazia nelle elezioni distrettuali a Hong Kong, le ha subito cancellate), a permettere dei sondaggi liberi (vietato a qualsiasi società straniera effettuare sondaggi o altri tipi di raccolta informazioni), o lasciare che le opinioni possano scorrere liberamente sulle rete cinesi.
Ma ci sono altri numeri che parlino chiaro, almeno finché non vengono cancellati dai registri pubblici – com’è stato il caso in queste ultime settimane per almeno 11 milioni di processi –, modificati retroattivamente – come per i censimenti della popolazione nello Xinjiang –, o semplicemente mai riportati – come per pressoché tutti i dati legati a “crimini” di dissenso. Limiti importanti per lo studio di uno Stato-partito che si vanta della massima trasparenza in sede multilaterale – salvo cancellare a ritroso anche i dati sui coronavirus studiati – e permette l’ingresso ormai solo a chi “racconta bene la Cina” secondo l’immagine che ne vuole dare il Partito.
Però, anche dallo Stato più autoritario alcune informazioni fuggono. Vediamone qualche numero. Insoddisfatti dall’aumento esponenziale del numero di processi e le assicurate condanne (nell’anno 2000 furono emesse circa 650.000 sentenze, con 6.617 persone dichiarate non colpevoli; crescendo gradualmente negli anni fino al 250%, nel 2019 il numero di sentenze emesse è arrivato a 1.660.637 mentre i non colpevoli sono crollati a soli 637), da quando è salito al potere Xi Jinping sono tornati in gran voga anche i sistemi di detenzione extragiudiziale, memori dei miglior tempi maoisti e già definiti come “sparizioni forzate” da dieci procedure speciali delle Nazioni Unite.
I campi di detenzione di massa per le minoranze etniche e religiose e la correlata imposizione di uno Stato di sorveglianza orwelliana ormai sono finalmente arrivate all’attenzione pubblica. Ma quel che il racconto incentrato sulle minoranze ancora cela è la massiccia repressione sulla popolazione generalizzata. Una visione che permette al regime di continuare a vendere i suoi slogan sul consenso interno o stigmatizzare i critici all’estero di razzismo verso il popolo cinese.
Quando giovedì Xi Jinping ha intonato da piazza Tiananmen che nessuno opprimerà o renderà schiavo il popolo cinese, ha comodamente omesso di aggiungere “a meno che non serva al Partito unico”: RSDL, Liuzhi, non-release release, rapimenti di Stato sono alcuni dei metodi messi in campo del regime da quando il segretario generale ha preso in mano il potere.
RSDL (Residential Surveillance at a Designated Location) non è altro che un termine burocratico per un crimine contro l’umanità ai sensi del Trattato di Roma. Istituito proprio nel 2013, consente alle autorità di detenere chiunque – cittadini stranieri inclusi – fino a sei mesi di tempo prima ancora di un arresto formale e senza alcuna supervisione giudiziaria. Le condizioni di detenzione sono costruite al solo scopo di estorcere le confessioni desiderate e instillare paura nella comunità: reclusione solitaria con sorveglianza h 24, tortura fisica e mentale, violenze sessuali e minacce ai familiari sono il pane quotidiano di chi si ritrova vittima del potere assoluto del Partito unico. Sebbene per la sua stessa ammissione i casi che vengono formalmente registrati sono soltanto una frazione di quelli effettivamente praticati, dalla sua istituzione nel 2013 all’anno scorso vediamo l’evidente esplosione del sistema con le stime più prudenti che indicano almeno 60.000 casi.
Nel 2018 viene aggiunto – “legalizzato” nella legge cinese sebbene contrario a tutte le convenzioni internazionali – il sistema del Liuzhi, successore del vecchio sistema Shanggui. Affidata alla neonata Commissione di supervisione nazionale, organismo extragiudiziale che risponde direttamente al Partito, anche le vittime del Liuzhi possono essere trattenute fino a sei mesi, ovviamente senza il diritto di consultare un avvocato, fare ricorsi o contattare la famiglia. La tortura anche qui è all’ordine del giorno. Il sistema è stato creato per ampliare l’ambito di supervisione e “controllo” non solo sui membri del partito, funzionari statali, dirigenti di scuole, ospedali, università, organizzazioni di massa e imprese statali, ma anche su giornalisti, uomini d’affari e appaltatori locali, con un bacino potenziale di 300.000.000 persone. I dati disponibili sono di nuovo molto frammentati, ma le stime più prudenti ci permettono di affermare che in media tra i 37 e 40 persone spariscono nel sistema ogni singolo giorno.
Inutile dire che in entrambi i casi i limiti temporali imposti della legge nazionale spesso vengono infranti senza la possibilità di un ricorso. Nel mirino di entrambi i sistemi, molto spesso coloro accusati di crimini contro la sicurezza nazionale o la creazione di “disturbi sociali”. Tradotto: chiunque esprime critiche al regime, cerchi di raccontare quanto accade veramente nel Paese – vi ricordate ad esempio i giornalisti e blogger che cercavano di raccontare la pandemia all’interno della Cina e sui quali ancora non si hanno notizie? –, difende i diritti altrui – tanti gli avvocati penalista o amministrativisti finiti essi stessi nelle gabbie del regime –, eccetera.
Potremo continuare per ore. Ma credo possa e debba bastare per far capire anche al lettore più critico quanto il tanto propagandato consenso si poggia sulla più brutale e crescente repressione interna. Ne è stato dato spettacolo in mondovisione a Hong Kong. Pensare o proclamare che la situazione nella Cina continentale sia in qualche modo migliore o che il popolo cinese non ambisce a godere dei diritti universali che noi diamo per scontato, questo sì che sarebbe razzista.