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Lo spirito di Ulisse nei viaggi di Bertozzini

Il viaggio è un percorso che spinge a guardare dentro se stessi, a ripensare alla propria esistenza, a tracciare un bilancio della propria vita, nel silenzio di terre lontane, distanti dalla propria città, dagli affanni o dalla incolore quotidianità. Giorgio Girelli, presidente emerito del Conservatorio Statale “G. Rossini”, legge le opere di Giancarlo Bertozzini

Il tempo corre, il presente incombe, il passato, anche recente, viene avvolto dalla trappola dell’oblio. Ma se abbiamo sempre detto che il passato è essenziale anche per il nostro futuro è legittimo tornare su un libro, prevalentemente fotografico, di Giancarlo Bertozzini riguardante uno dei suoi rocamboleschi ma affascinanti viaggi in territori per lo più sconosciuti come “Lungo il fiume Niger. Repubblica del Mali 1980. Fotografie e appunti di viaggio” (Argalia editore, 2013) e dedicato alla moglie Ada.

Il libro appunto si sostanzia in una serie di fotografie a colori bellissime che offrono al lettore la visione di panorami inediti del Mali ma soprattutto un quadro delle condizioni di vita della gente di questo Paese che oggi non vive più la realtà pacifica descritta dall’imprenditore pesarese. Il Mali è ora afflitto da una guerra infinita, che ebbe inizio nel 2012. Con la dichiarazione di secessione del cosiddetto Azawad e poi con la successiva invasione del Nord da parte di estremisti islamisti appoggiati da formazioni autoctone, il Paese è ora praticamente spaccato a metà, dilaniato da stragi di civili e da violenti assalti. Val la pena soffermarsi sulle caratteristiche del Mali, ma ciò che prioritariamente colpisce è la propensione di Giancarlo Bertozzini per un “viaggio di avventura – uno dei vari effettuati – attraverso la savana, il deserto e lungo il fume Niger, dormendo in tenda e con cene al campo sotto le stelle” precisa egli stesso, aggiungendo: “Portavo sempre con me binocolo, bussola altimetro, uno specchio per radere la barba ma anche per fare segnalazioni, una lente per accendere il fuoco, thermos, borraccia, sacco a pelo e salviette detergenti, oltre a medicinali e cibo”. Insomma c’è da giurare che l’esploratore pesarese Antonio Cecchi lo avrebbe ben accolto come suo prezioso collaboratore. Quale spirito spinge l’uomo alla ricerca di tali avventure?

Ad un altro libro di viaggi (Cina 1996-1997) svolti attraverso tre regioni della Cina (Yunnan, Guanxgi, Hainan) egli premette queste parole di Leonardo da Vinci: “Che ti muove, o uomo, ad abbandonare le proprie tue abitazioni della città, a lasciare parenti e amici, ed andare in luoghi campestri per monti e valli se non la naturale bellezza del mondo, la quale, se ben consideri, sol col senso del vedere fruisci?”. In effetti nell’animo dell’uomo e in particolare degli uomini forti è da sempre presente un desiderio: la sete di conoscere. Per soddisfare questo bisogno, il viaggio rappresenta un mezzo peculiarmente efficace perché esso genera in chi lo pratica una doppia serie di sensazioni. Da un lato curiosità, attrazione, ricerca e dall’altro anche ansietà, per l’ignoto che sta di fronte. Nella lingua inglese il termine viaggio viene comunemente tradotto con la parola “travel”, che in francese diventa “travail” assumendo il significato di “lavoro” mentre in italiano diviene travaglio. Ciò per evidenziare che il viaggio comporta anche impegno, fatica, persino sofferenza e rischio. Ecco perché l’amore per il viaggio (non quello delle crociere e degli alberghi a cinque stelle) appartiene specialmente agli uomini dall’animo forte. Nonché alle donne altrettanto “forti”, visto che il nostro “viaggiatore” è stato spesso accompagnato dalla moglie Ada.

Tutto questo coacervo di emozioni e di sentimenti, che in fondo, emblematicamente, richiamano il mito di Ulisse – l’eroe non solo astuto, ma coraggioso, amante dell’ignoto e assetato di conoscenza – debbono aver provato Giancarlo e Ada al momento di intraprendere il viaggio in Mali nonché durante il complesso itinerario. E già Dante fa dire ad Ulisse “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”, nella convinzione che il desiderio di viaggiare e di conoscere – rileva Simone Beta – sia ciò che distingue l’umano. Ed a partire dal XV secolo i protagonisti dei “viaggi di scoperta” cominciarono ad essere identificati come dei nuovi, moderni Ulisse. La stessa figura di Ulisse cominciò ad essere presa come modello in molte opere scientifiche e filosofiche. Nello scorrere del tempo lo spirito di questo mito ha ispirato scrittori, poeti, pittori, scultori, registi, musicisti. È di questi giorni la rappresentazione al Maggio fiorentino del “Ritorno di Ulisse” di Claudio Monteverdi. Il viaggio di Ulisse è giunto a stimolare anche rappresentazioni del “Teatro patologico”, entità animata e sorretta da quel personaggio eccezionale che è Dario D’Ambrosi.

Ebbene, quell’impulso a conoscere (che lo ha condotto anche in impervie zone dello Yemen del Nord di cui ha riferito con “La via dell’incenso e delle spezie”) fa emergere anche le allettanti testimonianze di Bertozzini. A corredo delle splendide foto sul Mali l’autore svolge osservazioni e riflessioni sulla popolazione del Mali, su quel “crogiolo di etnie” che la costituiscono: Bambara, Khassonkè, Malinkè, Bozo, Peul, Tuareg, Dogon ed altre. In particolare l’attenzione è posta su due etnie: i Tuareg e i Dogon. I Tuareg, alti, di pelle chiara, in verità rifiutano questo nome dato loro dagli arabi, e preferiscono chiamarsi Imohag, cioè “uomini liberi”. Detti anche “figli del vento” per la velocità con cui cavalcano i loro cammelli. Grandi conoscitori del Sahara – puntualizza il libro – “in cui riescono a trovare ogni polla d’acqua e ricordare ogni pietra o albero secco che possa indicare una pista”. Questo popolo è diviso in caste, aventi ciascuna proprie mansioni. Ai piedi della piramide sociale sono situati i servi e gli schiavi addetti ai lavori più umili e faticosi.

All’ultimo gradino stanno “I figli del diavolo” ovvero i fabbri che maneggiando il fuoco vengono apparentati al diavolo. I Tuareg, pur praticando la religione musulmana che prevede più mogli, sono monogami. Le donne sono molto rispettate e possono mostrare il volto non avendo l’obbligo del velo. Secondo la consuetudine, la sposa porta in dote la tenda, tappeti e stoviglie e, qualora lo desideri, ha facoltà di divorziare. “In questo caso” – osserva l’autore – “il malcapitato marito deve abbandonare il tetto coniugale e trovare rifugio dai parenti”. Non diversamente quindi da quanto spesso capita oggi in Italia ai mariti separati, stando almeno a molte cronache giornalistiche.

Venendo ai Dogon, essi si definiscono “il popolo delle stelle”. La tradizione, infatti, racconta che i loro antenati siano arrivati sulla terra in una palla di fuoco per trasmettere conoscenze agli uomini. Ed è stupefacente considerare di quali rilevanti competenze nel settore dell’astronomia siano dotati i capi villaggio (pur senza conoscere la scrittura). Risulterebbe non solo che i Dogon erano già famosi quali esperti astronomi al tempo dei faraoni, e per questo chiamati a corte, ma anche che in alcune caverne del loro territorio siano disegnate mappe stellari in modo perfetto. Tanto che soggiunge Bertozzini – stupito e quasi incredulo – “la scienza ufficiale ancora oggi non è stata in grado di spiegare questo mistero”.

Dal volume nel suo insieme, sia dalle immagini che dalle annotazioni emerge che il lungo viaggio nel Mali (da Bamako, attuale capitale del Paese, a Gao), durato 16 giorni, è vissuto dal protagonista come in un sogno: la scoperta di un mondo così lontano e diverso dal suo da fargli dimenticare la routine, da indurlo a guardarlo con discrezione quasi per non contaminarlo con tracce di civiltà esterne. Non si registra nel libro neppure un autoscatto o una foto del piccolo gruppo di persone che viaggiavano insieme a lui. Ad eccezione di una fotografia, che ritrae la moglie Ada con una donna del Mali, ad apertura di libro e separata peraltro da tutte le altre fotografie. Questa immagine si spiega perché il volume è dedicato ad Ada, per la ricorrenza dei cinquant’anni di matrimonio. Probabilmente questa dedica non è casuale, né nasce solo dalla circostanza della coincidenza della pubblicazione con l’anniversario del matrimonio. Essa ha forse anche un significato più profondo. Il viaggio, infatti, è anche un percorso che spinge a guardare dentro se stessi, a ripensare alla propria esistenza, a tracciare un bilancio della propria vita, nel silenzio di terre lontane, distanti dalla propria città, dagli affanni o dalla incolore quotidianità.



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