Sono due i documenti su cui ci si può basare, al momento, per farsi un’idea su come sarà la riforma fiscale contenuta nel Pnrr. Salvatore Zecchini, economista Ocse, ne analizza punti salienti, vantaggi e criticità
Tra gli impegni presi dal governo nell’ambito del Pnrr vi è quello di introdurre una riforma della tassazione che sia funzionale al superamento di alcune “debolezze strutturali” del Paese e si inserisca nella strategia di rilancio della crescita. In breve, è previsto un intervento complessivo che renda il sistema fiscale più rispondente a criteri di equità, certezza, semplicità e stabilità nel tempo. Non si forniscono particolari sui contenuti se non su due punti: il riferimento alle raccomandazioni di Bruxelles e la revisione dell’Irpef, che riguarda i redditi personali.
Già nel 2019 l’Unione europea raccomandava che si mirasse con interventi sul fisco a sostenere la competitività delle imprese e si operasse un ribilanciamento del carico fiscale alleggerendo il prelievo sui redditi da lavoro e ricorrendo, in contropartita, a riduzioni delle spese fiscali (trattamenti fiscali di favore, come deduzioni e detrazioni) e ad aumenti della tassazione delle rendite immobiliari a seguito dell’aggiornamento dei valori catastali. Accogliendo la raccomandazione, il governo ha prospettato soltanto la possibilità di modificare l’Irpef nel duplice senso della graduale attenuazione del peso fiscale sulle persone e della semplificazione insieme alla razionalizzazione delle norme, ma sempre rispettando due vincoli, il mantenimento della progressività e “l’equilibrio dei conti pubblici”.
Senza entrare nei particolari della riforma, si assume l’impegno a proporre al Parlamento entro il corrente mese una legge delega, che ovviamente fisserà solo principi e criteri, che faranno da base alla definizione delle modifiche da emanare con decreti di attuazione. In questa opera sarà coinvolta una Commissione di esperti, che certamente contribuirà a realizzare l’auspicio del governo di riordinare e razionalizzare le troppe norme esistenti fino a realizzare un integrale Codice tributario.
Nell’attesa della proposta di Legge Delega, importanti indicazioni sulle scelte da operare si possono trarre da due autorevoli ed apprezzabili lavori di recente pubblicazione: l’uno è un’analisi del direttore generale delle Finanze del Mef, Fabrizia Lapecorella, sulle possibili riforme del sistema tributario, mentre l’altro è il documento conclusivo dell’indagine conoscitiva svolta dalla VI Commissione del Parlamento. Entrambi individuano diverse criticità nel sistema impositivo attuale e prospettano soluzioni mirate a raggiungere determinati obiettivi, che traducono in termini concreti quelli genericamente assunti nel Pnrr. Con ogni probabilità, queste analisi lasceranno la loro impronta nelle scelte che il governo è chiamato a compiere nel definire le specifiche modifiche all’assetto della tassazione, anche se sarà obbligato a mediare tra le differenti preferenze espresse dalle forze politiche che lo sostengono.
Formulare una riforma del sistema impositivo è un compito molto arduo, come dimostra l’ultima grande riforma fatta in Italia, quella del 1973, che richiese anni di elaborazione e una solida maggioranza politica pronta a vararla senza troppi compromessi, condizioni oggi tutt’altro che assicurate. L’esigenza di favorire determinati gruppi sociali e di compensare con benefici fiscali diverse debolezze del sistema-Paese ha portato negli anni successivi alla sovrapposizione di una selva di trattamenti particolari, che hanno reso il sistema troppo intricato ed instabile perché il contribuente possa dipanarsi agevolmente e a basso costo nell’adempiere i suoi obblighi e nel comprendere la giustezza del prelievo dalle sue risorse. Di fatto, la congerie che ne è derivata ha condizionato le scelte del privato ad impegnarsi nel lavoro, produrre, investire, innovare e sviluppare un’impresa all’interno del Paese, fino ad assecondare comportamenti elusivi, se non proprio di evasione della tassazione.
Alla complessità e frammentazione del sistema vigente si aggiunge la dimensione della pressione fiscale complessiva, che ha raggiunto il 42,3% nel 2019, colpendo in particolare i redditi da lavoro con l’incidenza più alta nell’Ue (43,8%). L’Irpef rappresenta la principale componente delle fonti di entrate, fornendo il 40% circa. Certamente la riforma di questa imposta non esaurisce il compito di razionalizzare e bilanciare il sistema fiscale, né rende più agevole reperire i mezzi per riportare il livello relativo del debito pubblico su posizioni sostenibili. In presenza di una congiunzione di pressione fiscale, debito e disavanzi elevati restano pochi margini per attenuare il peso della tassazione, con riflessi sulle possibilità di stimolare la crescita attraverso questo canale, a parità di spesa pubblica.
I due documenti offrono un ventaglio di soluzioni, ma al tempo stesso sollevano alcuni interrogativi e inducono a una visione solo unilaterale della soluzione al problema della finanza pubblica. L’analisi delle Finanze si sofferma a lungo sul ruolo dell’Irpef come lo strumento “più adeguato” di ridistribuzione attraverso la progressività nel prelevare risorse dai contribuenti, sottolineando che l’effetto è la risultante sia della progressività, sia dell’altezza dell’aliquota d’imposta. Nel caso italiano, dal 2013 al 2018 per effetto principale del bonus Irpef la progressività fiscale si è impennata, mentre l’aliquota media è scesa. Naturalmente la ridistribuzione può realizzarsi anche dal lato della spesa pubblica e di conseguenza viene calcolato anche l’effetto di un numero ristretto di sostegni al reddito. Sommando i due effetti, si evidenzia che l’aliquota effettiva sull’incremento di reddito imponibile presenta notevoli salti tali da produrre distorsioni nella tassazione delle classi di reddito intermedie con riflessi sulla propensione al lavoro, ovvero l’offerta di prestazioni lavorative.
Dalle analisi si evidenzia che nell’avanzare verso scaglioni successivi, l’aliquota marginale sui redditi superiori a 28.000 euro ma inferiori a 40.000 euro si innalza fino al 61%, ovvero molto oltre le aliquote ufficiali, per poi calare bruscamente stabilizzandosi sul livello ufficiale massimo del 43%. In altri termini, l’applicazione di detrazioni decrescenti d’imposta all’aumento dei redditi da lavoro entro quella fascia sottrae una quota crescente ai percettori di redditi medi. Per correggere l’effetto vengono condotti esercizi di simulazione di due possibili alternative, la riduzione degli scaglioni da cinque a tre e l’applicazione di aliquote marginali con un profilo crescente continuo, come avviene in Germania. Il risultato è una preferenza per il modello tedesco sulla base di criteri di equità, maggior redistribuzione, trasparenza e semplicità, ma in entrambi i casi vi sarebbe una perdita di gettito fiscale tra 10 e 11,6 miliardi ed un impatto positivo sulla crescita di circa ¾ di punto, con differenze ridotte tra le due ipotesi. Il documento tratta anche della erosione del gettito degli altri tributi, presentando soluzioni distinte per ciascun tipo, tendenti a pareggiare i prelievi sulle diverse fonti di reddito. Per le imprese, non si esaminano le possibilità di alleggerimento fiscale, mentre si attira l’attenzione sull’esiguità del regime dei prelievi forfettari e sulle implicazioni sul piano distributivo di alcune opzioni per recuperare il gettito che verrebbe a mancare con l’abolizione dell’Irap.
Per quanto utile sia, il documento fa sorgere il duplice dubbio se la riforma della tassazione debba mirare principalmente alla progressività e alla redistribuzione, e se entrambe sono state misurate in maniera onnicomprensiva. Sul primo punto, va notato che nel Pnrr si indicano più obiettivi, quali migliorare la competitività delle imprese, superare le debolezze strutturali del Paese, ridurre gradualmente il carico fiscale, obiettivi che vanno oltre quelli del documento delle Finanze e che vanno posti in una gerarchia di priorità e di bilanciamenti. Se lo scopo principale è la crescita sotto il vincolo di ridurre deficit e debito, occorre favorire imprenditoria ed investimenti, più che enfatizzare la ridistribuzione. Proprio in questa direzione va il documento della VI Commissione parlamentare che assume come obiettivi l’incremento della crescita economica potenziale e il raggiungimento di un sistema fiscale caratterizzato da semplicità e certezza, ovvero chiaro e stabile. In specie, mira a ridurre il prelievo tanto sul lavoro che sul capitale, in quanto entrambi fattori produttivi all’origine dei processi di crescita, ed enfatizza la prevalenza del ruolo ridistributivo della spesa pubblica rispetto a quello dell’Irpef, sottolineando anche che “la metà dell’Irpef è pagata da una ristretta minoranza di contribuenti (8%).
Il problema dell’adeguatezza della misurazione della redistribuzione e della progressività dell’Irpef sembra ignorato nel documento delle Finanze. Ad esempio, si ammette che l’analisi non considera l’effetto delle addizionali regionali e comunali, ma nulla si dice sulle distorsioni dovute all’evasione tributaria che si estende anche alle più basse di classi di reddito dichiarato fiscalmente. Nessun riferimento neanche ai trasferimenti ai meno abbienti (tali o supposti tali), nelle più svariate forme che vanno dagli aiuti monetari agli alloggi sociali, alle imposte locali, come la Tari che è parametrata sulla superficie di proprietà del privato e non sulla numerosità dei residenti e sulla destinazione dell’immobile. Nulla si dice sull’Imu maggiorato per le seconde case e le abitazioni nei quartieri di pregio; per non parlare del sistema sanitario che è finanziato dai percettori di redditi medi ed alti perché i versamenti dei redditi medio-bassi non coprono i costi. Altre forme di progressività si riscontrano nel finanziamento dei servizi pubblici locali, come nel trasporto urbano il cui utilizzo senza pagamento del corrispettivo si è dilatato oltremisura in grandi centri urbani come Roma. La ridistribuzione avviene anche tra regioni, ovvero tra quelle che applicano le addizionali massime e quelle che si tengono al di sotto.
La Commissione parlamentare si discosta in più punti dal documento delle Finanze. Auspica una maggior protezione dei diritti del contribuente con norme a livello costituzionale, sollecita la semplificazione del sistema, preferisce il sistema a scaglioni ristrutturato a quello tedesco, si pronuncia per la tassazione duale per i redditi da capitale e la riduzione dell’aliquota media effettiva per i redditi individuali, e il superamento dell’Irap e delle difformità di trattamento nei redditi di impresa.
L’aspetto che viene, tuttavia, trascurato in entrambi i documenti è che il relativamente alto livello di prelievo tributario è dovuto a una dimensione della spesa che non si è riusciti a contenere negli anni, ma che tende a dilatarsi. Nel 2019 l’Ue aveva chiesto all’Italia per il 2020 di ridurre la spesa netta primaria dello 0,1%, nel quadro di un aggiustamento strutturale di bilancio dello 0,6% del PIL. Superata la pandemia, è necessario riconsiderare la grandezza relativa a cui è giunta la spesa alla luce sia dell’inevitabile urgenza di riequilibrare il bilancio e ridurre il debito, sia del peso della tassazione sull’iniziativa imprenditoriale e sulla propensione all’investimento e al lavoro. Non è sostenibile, né giustificato continuare nel 2022 con l’assistenzialismo diffuso, quando la pandemia sarà superata, perché significherebbe creare una “economia di assistenza” in cui lo stimolo a lavorare, innovare ed investire si affievolirebbe con riflessi negativi sul progresso economico e sociale.
Va invece posto un freno alla dilatazione della spesa pubblica corrente, a parte il Pnrr, e nel contempo puntare su incrementi di produttività ed efficienza nel settore pubblico, soprattutto a livello locale. Un freno alla spesa crea margini per ridurre l’incidenza della tassazione e permette anche di fronteggiare il problema della concorrenza fiscale tra Paesi, che non è intaccato dall’ultimo accordo al G20 sulla soglia minima di tassazione di parte delle grandi corporations. Allinearsi sulla pressione fiscale delle economie europee più dinamiche servirebbe a rinforzare l’attuale strategia del Pnrr consistente nel superamento di alcuni ostacoli strutturali alla crescita attraverso le riforme. Coniugare minori tasse con welfare e risanamento di bilancio non è un compito impossibile, ma postula un salto di efficienza e produttività nel sistema pubblico.