Come farà un grumo di istinti coagulati nelle identità dei vecchi leader a tramutarsi nel partito contiano, sicuramente a vocazione carismatica ma, almeno nelle aspirazioni, dotato di forma organizzativa stabile? È una scommessa interessante e ambiziosa. Forse troppo. La rubrica di Pino Pisicchio
Avremo tempo di analizzare la forma giuridica del nuovo Statuto pentastellato e del progetto di rilancio del Movimento che il reinsediato capo dei Cinque Stelle Giuseppe Conte ha illustrato ai social in un sabato italiano, plumbeo come fossimo a Bruxelles.
Nell’epopea di mezza estate, farcita di anatemi, appelli e digrignamenti irrevocabili tra l’ex presidente foggiano e il conducator Beppe Grillo, questa presentazione ai media vuole rispecchiare il suggello dell’accordo al ristorante, il già celebrato patto della spigola, offerto alla narrazione pubblica come il rito della rinascita. Un accordo, costretto dalla necessità di ridurre il danno di uno sfarinamento già in atto del M5S, così fulmineo da lasciar immaginare che la trama di cui è imbastito sia alquanto cedevole, intessuta di diffidenze, insofferenze e inevitabili urgenze.
La verità è che l’impresa a cui si appresta Conte galleggia nel mare dei paradossi. Un primo, fondamentale, che trascina con se gli altri, è legato alla natura stessa del Movimento che nel 2018 realizzò il risultato clamoroso dell’elezione del 33% di tutti i parlamentari italiani. Quale fu la propulsione che trascinò i pentastellati è presto detto: diedero voce allo spirito antagonista, anti-establishment, per certi aspetti addirittura anti-parlamentarista raccolto (e in parte alimentato) nel Paese, svolgendo anche un ruolo positivo di argine a posizioni estreme, ricondotte in alveo democratico.
L’origine del consenso è quella e le regole d’ingaggio si mossero, dunque, in chiave oppositiva. Poi venne l’esperienza di governo in cui, mentre Conte assumeva una sua autonoma fisionomia, che si è fatta rendita di gradimento popolare anche dopo, il Movimento stingeva le proprie bandiere e, non avendo la forma di un partito in grado di spiegare e rapportarsi ma solo quella di un sentiment fluttuante nei social, si divaricava dal suo popolo. A un certo punto Conte sembrò che volesse mettersi in proprio: in Parlamento si mossero in soccorso del premier antichi arnesi dediti alla raccolta di “responsabili” per il suo nuovo partito e dal territorio qualche governatore disse “siam pronti”.
Ecco, la natura del primo paradosso è nell’apparente inconciliabilità delle due anime che albergano nell’ex premier: moderata, quasi democristiana, e antagonista riannodata alle origini. Ambiguità che, però, si allarga a tutto il Movimento. Secondo paradosso: il M5S è stato uno spazio politico caratterizzato dal l’identità carismatica del suo fondatore, Beppe Grillo, e da quella più rarefatta ma incombente, di Gianroberto Casaleggio, padrone delle reti. Come farà un grumo di istinti coagulati nelle identità dei vecchi leader a tramutarsi nel partito contiano, sicuramente a vocazione carismatica ma, almeno nelle aspirazioni, dotato di forma organizzativa stabile? È una scommessa interessante e ambiziosa. Forse troppo.
In ultimo ( per il momento): il capitale del M5S è qui ed ora, nel Parlamento, fino a quanto dura la legislatura. Poi non si sa. Soprattutto non si sa come potranno convivere le sue tre anime – Conte, i governativi (che non sono la stessa cosa), Casaleggio jr./Di Battista. Già adesso il capitale sociale – che sono i voti – viene valutato intorno al 14-15% da tutti i sondaggi. Solo fantasie miracolose potrebbero salvare il M5S dalla condanna all’irrilevanza nel nuovo Parlamento fortissimamente voluto in formato bonsai dal pensiero pentastellato.
Il nuovo M5S di Conte dovrà affrontare anche la sfida più ardua: quella di non soccombere di fronte all’eterogenesi dei fini da esso stesso messa in moto. In bocca al lupo.