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Italia-Libia. La leva economica secondo Cristiani

Dario Cristiani, Iai/Gmf, analista tra i principali studiosi italiani del quadrante nordafricano, spiega il senso dell’impegno che il governo di Roma sta mettendo sul dossier libico

“Se dovessimo concentrarsi su tutti i vari interessi strategici dell’Italia nel Mediterraneo è palese che la Libia sia il più importante”. Dario Cristiani, Iai/Gmf, analista tra i principali studiosi italiani del quadrante nordafricano, spiega così il senso dell’impegno che il governo di Roma sta mettendo sul dossier libico. Dossier che nei prossimi giorni passerà da una riunione cruciale per il processo di stabilizzazione in corso che si terrà proprio nella capitale italiana.

La situazione in Libia è questa: un Governo di unità nazionale ha ricevuto l’investitura da un sistema di dialogo politico costruito dall’Onu (noto con l’acronimo Lpdf, Libyan political dialogue forum) per traghettare il paese verso elezioni già fissate per il 24 dicembre. L’esecutivo ad interim è guidato da Abdelhamid Dabaiba e ha su di sé le speranze per risolvere una crisi che si trascina, con diversi processi e dinamiche, dal 2014.

La Comunità internazionale ha accesso i riflettori sul voto, anche perché sembrano esserci ostacoli da parte di alcuni attori libici che vorrebbero mantenere la situazione in sospeso per goderne dei frutti: il rischio è lo smottamento del processo di stabilizzazione innescato. “Sulle elezioni c’è in effetti un’attesa quasi messianica”, commenta Cristiani: “Sia chiaro, non dico che non siano qualcosa di importante, anzi fondamentale, ma non è detto che siano la panacea di tutti i mali. Voglio dire: siamo sicuri che le varie parti in competizione accetteranno di buon grado la sconfitta? Non dimentichiamoci che già nel 2014 l’innesco della guerra civile fu proprio il risultato elettorale non riconosciuto”.

Secondo l’esperto italiano il pericolo maggiore viene ancora, in parte, dall’Est. “Il signore della guerra, Khalifa Haftar, ha sostanzialmente accettato il cessate il fuoco perché è stato militarmente contenuto dall’intervento militare turco a difesa di Tripoli e della Tripolitania, ma resto non del tutto convinto sulle sue non-volontà di un nuovo assalto armato”. L’ipotesi che Cristiani fa riguarda una eventuale partecipazione di Haftar al voto presidenziale e alle sue conseguenze (ammesso che si riesca a celebrare quel voto, in quanto le condizioni a contorno sono più complicate che per le parlamentari e le elezioni potrebbero risolversi in una mezza misura, rinnovo della Camera dei Rappresentanti entro dicembre e in un secondo momento quelle per la presidenza).

“Se Haftar dovesse partecipare al voto, difficilmente vincerebbe (nella parte più popolosa del paese, la Tripolitania, è visto da molti come il male assoluto), ma potrebbe a quel punto non accettare i risultati e aprire a una stagione di nuovi attacchi armati. Finché Haftar è parte della situazione il rischio di un collasso dell’intero processo è dietro l’angolo. Come lo è un eventuale colpo di mano militare, nonostante in questo momento gli attori esterni che lo hanno sostenuto, come Egitto ed Emirati Arabi, o la Russia, abbiano preso una posizione più morbida”, argomento Cristiani. Che aggiunge: “Qualcosa di simile poi riguarda la Tripolitania, dove le milizie locali sembrano ormai da raccontare più con i termini delle organizzazioni mafiose che non quelli dell’analisi politica e securitaria sui gruppi insurgenti e ribelli. E queste organizzazioni hanno tratto vantaggio dal continuo clima di conflitto”.

È in questo contesto generale che si inserisce l’attuale ruolo dell’Italia. Roma sta particolarmente investendo nella fase attuale, provando a giocare la carta della ripresa economica della Libia come fattore che possa spingere la stabilizzazione: perché? “Innanzitutto – risponde Cristiani – negli ultimi anni c’è stata una chiara caratterizzazione dell’azione politica della Farnesina sulla centralità del quadro economico. Sulla Libia nello specifico, l’Italia ha rapporti consolidati e conoscenza del quadro economico e familiarita’ con le pratiche di business in Libia che tanti altri non hanno, e quando le armi si sono fermate ha subito fatto valere questo vantaggio comparato”.

Per Cristiani, nella fase più dura della militarizzazione della crisi, quella dall’aprile 2019 al giugno 2020, l’Italia “ha sofferto, perché non ha predisposizione, interesse, cultura strategica per farsi coinvolgere in certe situazioni, davanti a paesi invece come la Turchia molto più predisposti a certe azioni in cui l’utilizzo della forza militare è funzionale ad ottenere vantaggi politici immediati”.

“Dal punto di vista sia qualitativo che quantitativo – aggiunge Cristiani – nessun paese è in grado di esprimere il livello di engagement economico che hanno gli italiani in Libia”. Un esempio calzante è la centralità che ha l’Eni non solo nel settore petrolifero, ma anche per il più ampio sistema economico e infrastrutturale libico.

“L’uso dell’economia come moltiplicatore delle capacità di fare politica estera dunque in questo caso è molto positivo – continua –, però va tenuto conto di quella condizione interna (ed esterna) a Tripoli e Bengasi, perché se la stabilizzazione collassa e le armi tornano a dominare il contesto libico, il fattore di forza italiano può venire meno e si rischia di finire per essere messi all’angolo. Serve consapevolezza che focalizzarsi principalmente sull’economia senza lanciare contestualmente azioni politiche e diplomatiche di peso e alto profilo per facilitare il dialogo intra-libico e fermare potentiali spoliers, sia esterni che interni, puo’ essere altrettanto rischioso. Quindi, il focus sull’economia va bene ma non ci si può solo limitare a quello”.



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