Il fatto che il gioiello tecnologico della Regina (la portaerei Queen Elizabeth) nel suo primo viaggio operativo si sia subito diretto nel Pacifico non sembra essere piaciuto molto agli americani. Da qui le parole di Lloyd Austin, capo del Pentagono, che ha ricordato ai cugini britannici quali sono le aspettative Usa sui compiti degli alleati europei. Il commento del generale Mario Arpino, già capo di Stato maggiore della Difesa
Anche per le coppie più innamorate, a un certo punto succede che la luna di miele si esaurisca. Certo, ci si vuole sempre bene, per carità, ma ci si accorge che qualcosa è cambiato. Gran Bretagna e Stati Uniti sono sempre stati solidali, e in particolare la prima ha sempre ambito a rimanere in scia, il più vicino possibile. Ricordo a questo proposito un particolare simpatico. In occasione del suo cinquantenario, l’Usaf aveva invitato a Washington il capi di tutte le Aeronautiche occidentali, compresa quella israeliana. Sedevamo attorno a un grande tavolo in ordine alfabetico. L’israeliano, accanto a me, guardandosi in giro mi ha sorriso divertito, mormorando: “Vedi, Mario, United Kingdom e United States stanno sempre assieme, sono indissolubili. Sono sicuro che se gli Usa decidessero di cambiare nome, immediatamente anche Uk farebbe lo stesso”.
L’episodio, buffo quanto si vuole, ma altrettanto vero nella sostanza, è di quasi 25 anni fa. Oggi è ancora così? Sì e no. Dopo la Brexit, la Gran Bretagna evidentemente avverte un vuoto di potere: la triade imperiale europea, Francia, Germania e Uk si è ormai dissolta e nella Nato, dove sopravvive, il ruolo britannico è fortemente condizionato. È ancora indispensabile, ma non autonomo e globale, e questo per chi sventola lo Union Jack appare intollerabile. Si apre così un dualismo sentimentale, ma anche pragmatico che, seppure in minor misura, affligge anche la Ue: fedeltà all’interno della Nato, ma libertà d’azione all’esterno. Il primo concetto è ovviamente molto gradito agli Stati Uniti, il secondo molto meno. Anzi, è sentito quasi come un atto di insubordinazione, o quanto meno un’ invasione di campo che disturba i propri obiettivi.
È in questa luce che vanno lette e analizzate le parole pronunciate mercoledì scorso a Singapore dal capo del Pentagono, Lloyd Austin, mentre la nuovissima portaerei britannica Queen Elizabeth stava attraversando lo Stretto di Malacca, facendo bella figura con a bordo gli F-35 altrui, ovvero del Corpo dei Marines americani. Certamente un bell’esempio di collaborazione, ma il fatto che il gioiello tecnologico della Regina nel suo primo viaggio operativo si sia subito diretto nel Pacifico non sembra essere piaciuto molto agli americani. Dopo gli elogi per lo spirito di cooperazione (“nell’Indo-Pacifico è gradito l’aiuto di tutti”), ha subito proseguito con un garbatissimo buffetto di rimprovero sulla guancia dei sudditi di Sua Maestà, quando ha ricordato che il globo è grande, le risorse sono scarse e, “mentre noi ci concentriamo qui, il Regno Unito può essere più utile in altre aree del mondo”. Tutta questa finezza di pensiero, tradotta brutalmente in italiano, significa: “Cari amici britannici, grazie mille, ma non fate i birichini; pensate a tenere ben rasato il vostro verde prato di casa, perché qui ci pensiamo noi”.
Uno schiaffo sonoro, altro che delicatezza. E non è certamente pensabile che Lloyd Austin si permetta di ardire tanto se ciò che pensa e dice non fosse già stato condiviso da Joe Biden, il democratico buono, e da tutto il suo entourage. Come a suo tempo abbiamo già osservato anche su queste pagine, il nuovo presidente è rimasto psicologicamente e culturalmente ancorato, un po’ perché ci crede davvero, e un po’ perché premuto dagli ideologi ultra democratici (liberals?), al primo programma elettorale del “suo” presidente Barack Obama.
Programma ambizioso, che prevedeva una graduale ricostruzione della credibilità americana dopo il disastro della guerra irachena di George Bush jr., un potenziamento delle forze armate per dare un robusto elemento di rinforzo alla politica estera, una più equilibrata distribuzione della ricchezza e del benessere (Obamacare), un ri-orientamento degli interessi economici, politici e militari verso l’Asia-Pacifico (pivot to Asia) e, conseguentemente, un graduale ritiro dagli impegni finanziari e militari in Medio Oriente, in Europa e nella Nato. Confidando che alle cose di questa parte del mondo ci avrebbero pensato un’Unione europea maggiormente consapevole delle proprie responsabilità regionali e una Nato maggiormente europea anche sotto il profilo finanziario.
Quindi, un mondo nuovamente bipolare, come ai tempi di quella Guerra fredda che il repubblicano Ronald Reagan aveva vinto per logoramento, senza dover combattere. Bellissimo piano, non contestabile né sotto il profilo ideologico, né sotto quello dei principi universali. Aveva un solo difetto: non era fattibile. E lo dimostra il fatto che nessuno di questi buoni propositi si sia realizzato. Se non, solo in parte, l’Obamacare, bloccato da carenza di risorse ed eccesso di ostacoli. Joe Biden, che dal 2007 aveva contribuito all’elaborazione del piano, alla fine se ne era innamorato ed ora, maledicendo cattiva sorte e “sabotatori”, lo rivuole a tutti i costi, così com’era. Come abbiamo visto, al grido di “non disturbate il manovratore”, ormai rimbrotta gli alleati indisciplinati e procede imperterrito verso il prossimo insuccesso. Sì, perché se è vero che la situazione è cambiata, è anche vero che è cambiata in peggio. La Russia, forse un po’ acciaccata all’interno, c’è ancora. In più, negli ultimi dieci anni, c’è stata l’esplosione della Cina, che nell’Indo-Pacifico è già grande potenza. E se le due decidessero di fare fronte comune?