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Draghi-Mattarella, se nessuno vuole l’oro nella staffetta Quirinale

Chi vuole Mario Draghi al Quirinale? La profezia del ritorno alle urne agitata da Giorgetti smuove le acque della politica italiana arrivata col fiatone alla pausa d’agosto. Ma la staffetta con Mattarella incute timore anche per altre ragioni…

Dopo l’oro nei cento metri, chissà l’Italia come se la cava nella staffetta. Il dubbio inizia a insinuarsi nei palazzi della politica italiana all’esordio del semestre bianco. Non si parla di Olimpiadi ma del tanto sospirato e discusso trasloco di Mario Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale. Che succede se “Super Mario” accetta di dare il cambio a Sergio Mattarella sul colle più alto? Si torna alle urne o si va avanti fino a fine legislatura?

La verità è che nessuno si è fatto un’idea precisa. A smuovere le acque ci ha pensato ancora una volta Giancarlo Giorgetti, il ministro dello Sviluppo economico e Richelieu della Lega che ha fatto capolino alla festa del Carroccio a Cervia, senza mettere piede però al tradizionale appuntamento al Papeete, la spiaggia protagonista del terremoto gialloverde nell’estate del 2019. Quella profezia funesta pronunciata dal palco, “se Draghi dovesse decidere per la presidenza della Repubblica, non vedo come il governo potrebbe andare avanti”, ha drizzato le antenne della politica italiana arrivata alla pausa agostana esausta e un po’ logorata dalla battaglia per la Giustizia.

Se togli il premier, dice Giorgetti, “ci vuole una forte legittimazione popolare”. Insomma si torna a votare, con un Recovery plan appena abbozzato e una corsa contro il tempo contro la sfilza di varianti del Covid che continuano a remare contro la campagna vaccinale. Lo spettro del voto anticipato torna ad agitare i partiti e le onorevoli vacanze in arrivo, con reazioni opposte ma tutte accomunate da un tratto: l’assenza del pur minimo entusiasmo.

Perfino Giorgia Meloni, che sondaggi alla mano ha da guadagnare più di tutti da un nuovo rodeo elettorale, preferisce dribblare il problema, “è molto presto per fare ragionamenti di questo tipo”, ha chiosato due settimane fa a Rapallo. Figurarsi Giuseppe Conte, il capo-in-pectore del Movimento Cinque Stelle impegnato non senza qualche affanno a tenere buoni gli indignados grillini contro la riforma Cartabia. “Ogni cosa a suo tempo – è stata la serafica e un po’ vaga risposta dell’ex premier in un’intervista a La Stampa – candidare adesso Draghi al Quirinale può essere frainteso, risulterebbe un promoveatur ut amoveatur”.

Tra piroette e doppi passi, nessuno si prende la briga di spiegare perché, davvero, il trasloco di Draghi è un problema grosso come una casa. Alla sempreverde paura per le elezioni anticipate, tanto più di un Parlamento pronto a subire la sforbiciata del referendum taglia-poltrone, e cioè a mettere in palio circa la metà dei posti oggi occupati dagli onorevoli di Camera e Senato, se ne somma un’altra. Quella di mettere la firma sul “dopo-Draghi” e sui dossier a metà che l’ex governatore della Bce potrebbe lasciare sulla scrivania di Palazzo Chigi in caso di un trasferimento anticipato.

Anche se il voto fosse scongiurato l’impresa sarebbe da vertigine. La riforma della Giustizia non è che la punta dell’iceberg. Affilata, pericolosa, ma pur sempre la punta. Sotto c’è una montagna che ancora deve emergere, a partire dalle riforme del fisco e del lavoro. Chi si prenderà la briga di riscrivere da capo i due cavalli di battaglia dell’era Lega-Cinque Stelle, rimanendo in equilibrio fra le richieste dell’Ue e gli arroccamenti dei partiti in Parlamento?

Ecco spiegata la scarsa, anzi nulla passione con cui la politica segue l’ipotesi di una staffetta Mattarella-Draghi al Quirinale. Così come il molto rumore per nulla che è risuonato intorno a questo martedì, il giorno del “gong” che inaugura i sei mesi in cui, ex art. 88 della Costituzione, il presidente della Repubblica uscente non può sciogliere le Camere. Per dirla con il costituzionalista e deputato dem Stefano Ceccanti, il semestre bianco ha oggi tutto l’aspetto di “una tigre di carta”.

Anche ammesso che Draghi accetti di salire al Colle per vigilare sette anni, e non due, sull’attuazione del Recovery Fund (benché finora i segnali trapelati dal premier vadano nella direzione opposta), e ammesso che i leader politici si prendano il rischio di accordarsi per riempire la casella vuota a Palazzo Chigi, rimane un punto interrogativo in sospeso. Chi può prendere il testimone dell’ex banchiere?

O meglio, come scrive il direttore del Giornale Augusto Minzolini, esiste un “partito di Draghi senza Draghi?”. Di fronte a un uomo che ha fatto del decisionismo un marchio di fabbrica del suo primo semestre alla guida del governo, l’idea di far continuare il lavoro a una non meglio definita area trasversale alle forze politiche, in una sorta di supplenza, appare più un esercizio di fantapolitica che uno scenario credibile, peraltro difficile da spiegare a un’Ue che sulla credibilità dell’attuale premier, falchi compresi, ha dato fiducia al piano di ripresa italiano.

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