Secondo Perteghella (Ecco), per la presidenza Raisi restano in piedi tutti i problemi del passato, ma l’Iran si trova anche davanti questioni complesse che riguardano il clima e la transizione energetica che ruotano molto attorno ai negoziati sul Jcpoa, sebbene il regime voglia cercare di spingere l’economia di resistenza
L’Iran entra in una nuova fase politica, quella della presidenza di Ebrahim Raisi, esattamente come ne era uscito: crisi economica; pandemia in fase di diffusione (anche per la mancanza di vaccini e dispositivi medici sanitari); scontri in corso in una guerra ombra (che rischia da un momento all’altro di dilagare); popolazione insoddisfatta; Pasdaran impegnati più a salvaguardare il loro ruolo (e i loro interessi) che a seguire l’interesse del paese; rapporto complicato con il resto del mondo.
Basta scorrere indietro di pochi giorni per avere una fotografia complessiva. Mentre lo Stretto di Hormuz e il Golfo dell’Oman due tanker vittime di incidenti sospetti, Israele e Stati Uniti (che per quegli incidenti incolpano i Pasdaran) continuavano a bersagliare le milizie sciite con cui la teocrazia di Teheran intende muovere influenza nella regione mediorientale; nel frattempo proteste popolari segnano alcune aree del paese (per primo il torrido Khuzestan) colpite da crisi idriche per cui i cittadini incolpano una generale disattenzione delle istituzioni, accusate di essere concentrate più sulle attività strategiche nella regione che nel rendere la vita migliore agli iraniani; vita che potrebbe essere resa più prospera e agiata dall’eliminazioni delle sanzioni statunitensi che la ricomposizione dell’accordo sul nucleare Jcpoa (rotto per volontà trumpiana) dovrebbe portarsi dietro, a patto però che l’Iran si comporti da interlocutore affidabile.
Da qui, se c’è un elemento per valutare la visione e l’orientazione di Raisi potrebbe essere proprio questo dossier. In discussione a Vienna da mesi, l’iniziativa per ricomporre l’accordo (mediata dall’Unione europea) è attualmente in stallo, bloccata intanto perché Raisi non gradiva che un’eventuale targa del passaggio che avrebbe sbloccato le sanzioni e riportato movimento economico-commerciale all’Iran portasse il nome di Hassan Rouhani. Ossia, non voleva concedere un ultimo successo politico al rivale.
Se c’è una linea di pensiero che vede nell’approccio al dossier di Raisi un certo livello di pragmatismo, dall’altro lato d’altronde il conservatore — accusato di crimini contro l’umanità per aver ordinato omicidi contro gli oppositori negli anni Ottanta — potrebbe avere maggiore ritrosia ideologica nel trattare. Rouhani, per formazione e visione pragmatico-riformista, vedeva nell’Europa e negli Stati Uniti gli interlocutori decisivi per il suo paese. Raisi fa parte di un gruppo politico che trova maggiore riferimento in Russia e Cina.
Tuttavia, anche Mosca e Pechino sono parte del Jcpoa, entrambi interessati ad avere come alleato un Iran più potabile. Lettura necessariamente realista, anche in vista della gestione delle relazioni future con un paese che ha davanti a sé sfide enormi, anche dovesse recuperare qualcosa con l’eliminazione delle sanzioni e il ripristino del regolare corso del Jcpoa. Pragmatismo con cui tra l’altro anche gli altri Paesi del Golfo si muovono nei confronti della Repubblica islamica, tanto da aver inviato funzionari all’inaugurazione. Secondo Annalisa Perteghella, senior policy advisor dell’ECCO ed esperta di Iran, le proteste arrivate dal Khuzestan rappresentano un paradigma, una sommatoria delle crisi interne al paese: per ora la risposta è stata repressiva, e ci si aspetta una nuova escalation con l’approvazione da parte del nuovo governo di provvedimenti per ulteriori restrizioni nell’uso di Internet.
“La situazione in Khuzestan, regione abitata da una minoranza araba e di primario interesse per la sicurezza nazionale in quanto contiene molte delle riserve petrolifere iraniane, dà già segnali di un tentativo di chiudere, reprimere e non risolvere il problema alla radice”, spiega Perteghella. Il problema Khuzestan raccoglie tre elementi in sé: le questioni ambientali che intaccano la stabilità interna al paese, con le proteste divampate per la carenza idrica (frutto della siccità unita al malgoverno del territorio), in un’area dove la principale risorsa del paese (il petrolio) affronterà le sfide della transizione energetica. “In Iran non esiste transizione energetica, discorso vano, anche perché molto si collega al discorso delle sanzioni, a cui si legano poi i problemi di gestione delle reti idriche o elettriche, su cui sarebbero necessari ammodernamenti che senza l’apertura dell’economia sembrano difficili”.
L’Iran “non può fare la transizione energetica da solo”, aggiunge l’analista italiana: “E tutto ruota attorno al negoziato sul Jcpoa, in fondo, su cui se prima c’era cauto ottimismo il clima è cambiato in peggio. Tra l’altro, Raisi lancia anche il messaggio secondo cui l’Iran non ha bisogno dell’Occidente, perché lui dice che la cosiddetta ‘economia di resistenza’ funziona benissimo, e dunque diventa meno vera quella retorica che vedrebbe Teheran bisognosa di un accordo. Anzi, semmai diventiamo noi occidentali che abbiamo bisogno di un’intesa per fermare in maniera negoziata e pacifica il programma nucleare che sta galoppando. Il regime è convinto che possa far fronte alle sanzioni, ma è chiaro che il paese è una pentola a pressione come vediamo dall’estensione delle proteste dal Kuzhestan ad altri territori”.