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Quanti errori su Mps, adesso Draghi faccia quello che deve fare. Parla Maffè

L’economista e docente della Bocconi. Sul Monte dei Paschi bisognava intervenire decenni fa impedendo alla politica e ai partiti di devastare la banca. Adesso basta cincischiare, l’unica soluzione è la cessione della good bank. La nazionalizzazione del 2017? Un errore…

Non c’è un piano B per il Monte dei Paschi. E l’unica strada, la cessione della parte sana a Unicredit, va percorsa in fretta, senza indugio. Il governo di Mario Draghi, insomma, dice a Formiche.net Carlo Alberto Carnevale Maffè, economista della Bocconi, deve fare in fretta perché ogni giorno perso indebolisce la posizione contrattuale dello stesso esecutivo.

Il ministro Franco ha escluso ogni alternativa alla cessione della parte sana di Mps. Una soluzione industriale che convince?

Lo schema di salvataggio di una banca in difficoltà è consolidato: si separano le parti sane da quelle problematiche. Le prime vanno in una cosiddetta good bank, che può essere acquisita da una banca solida o da un fondo di investimento, mentre le seconde finiscono in una bad bank, che viene di solito messa sotto un ombrello protettivo pubblico in attesa di venire progressivamente liquidate. A seconda di quanto vengano rispettivamente valutate le due parti, si possono trovare o no acquirenti di mercato. Il ministro Franco ha quindi ragione a dire che non ci sono alternative praticabili alla cessione di Mps, specie dopo il responso negativo degli stress test europei. A dire il vero un’alternativa ci sarebbe. Ma…

…ma?

Richiederebbe una risoluzione pilotata secondo le procedure della Brrd, la Bank Recovery&Resolution Directive, la direttiva europea sulle crisi bancarie. Tale direttiva fu giustamente introdotta come forma di impegno delle istituzioni rispetto ai mercati finanziari che temevano, durante la crisi del debito sovrano, una catena di salvataggi a carico del debito pubblico. Il whatever it takes di Draghi si è rivelato in tutta evidenza molto più efficace della pur rigorosa struttura legale costituita dalla Brrd, che di fatto è stata aggirata più volte da molti Stati dell’eurozona.

Allora, si torna al punto di partenza. O meglio, c’è una unica strada…

Sì, perché qui viene il problema: il moral hazard indotto dai salvataggi surrettizi – come quelli di Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca – con miliardi di perdite accollati al contribuente e altri miliardi garantiti alla banca subentrante per farsi carico del salvataggio, hanno offerto ai potenziali acquirenti una formidabile leva negoziale. Chi si candida a rilevare una banca in difficoltà, oggi, sa di poter ottenere condizioni vantaggiose da governi che devono rispettare scadenze e impegni internazionali.

Dunque?

Ogni ulteriore rinvio della soluzione del problema Mps, quindi, non farebbe altro che peggiorare la posizione negoziale del governo e aggravare il già enorme peso che i contribuenti hanno dovuto sopportare per coprire i buchi storici della gestione scellerata di una delle più antiche banche del mondo.

Mps ha perso nel 2020 1,6 miliardi di euro. Non ha la vaga sensazione che lo Stato si dovesse muovere prima, senza perdere tempo?

I danni fondamentali al patrimonio di Mps sono stati fatti molto prima che, nel 2017, intervenisse direttamente lo Stato nella proprietà. Il peccato originale è stata la gestione politicizzata e provinciale di un pur sempre prestigiosa e rispettata istituzione finanziaria, che ha tuttora un forte radicamento nei territori dove è presente. Oggi sono sotto gli occhi di tutti gli effetti di aver tollerato per troppo tempo, se non addirittura favorito, una governance inadeguata e un management scelto per appartenenza partitica e non per competenza. Certo che le istituzioni, tutte, dai supervisori ai legislatori, avrebbero dovuto intervenire prima: ma non qualche anno fa, bensì qualche decennio fa, quando la politica italiana considerava le banche alla stregua di strumenti elettorali nelle mani dei partiti, invece che meccanismi indipendenti essenziali per il funzionamento di un’economia di mercato.

Non abbiamo imparato la lezione, però…

Oggi il vizietto non è passato: a chiedere di perpetuare la presenza della politica in banca sono tuttora partiti che hanno fatto fallire o rovinato istituti finanziari sotto la propria sfera di influenza, o movimenti che sono passati in scioltezza dall’urlare in piazza niente soldi dello Stato alle banche a chiedere di bruciare ulteriori miliardi di debito pubblico per comprarsi qualche mese di consenso elettorale.

Un po’ di revisionismo. Fu giusto salvare Mps con i soldi dei contribuenti?

No.

Perché?

A conti fatti, sarebbe stato molto meno costoso per le casse pubbliche e molto più efficace per la solidità del sistema bancario scegliere la strada di un radicale risanamento – sia pure al prezzo di un significativo supporto statale – nel 2016, in un contesto economico in crescita e con un settore bancario nazionale che presentava maggiori spazi di consolidamento rispetto ad oggi. Quando una banca si trascina problemi patrimoniali per decenni a causa di gestioni pregresse, come è il caso di Mps, la tempestività di intervento è essenziale per salvaguardare gli attivi e il brand. Alessandro Profumo e Fabrizio Viola avevano tutte le capacità e gli strumenti per avviare un risanamento strutturale della banca, ma furono messi alla porta da una governance provinciale e inadeguata che tentò un estremo colpo di coda, aggrappandosi a un’illusione di impossibile controllo fino all’intervento statale del 2017, che pure dovette applicare il criterio del burden sharing, penalizzando azionisti e obbligazionisti subordinati.

Sappiamo poi come è andata a finire…

Mps è stata trascinata in una profonda crisi da quella stessa politica che oggi pretende di avere la ricetta per proseguire a gestirla, nonostante decine di miliardi di perdite accumulate. Ora basta. Gli adulti nella stanza, e certamente tra questi ci sono, Daniele Franco e Mario Draghi, dichiarino che la ricreazione bancaria è finita, e risolvano il problema con un dignitoso e pragmatico compromesso, una volta per tutte.

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