Il dibattito sullo ius soli torna ad accendere il confronto tra le forze politiche, tra chi si oppone e chi cerca una maggioranza con cui far passare il provvedimento. Secondo Marco Impagliazzo, comunità di Sant’Egidio, “affrontare il tema della cittadinanza è anche guardare con fiducia al futuro del nostro Paese”
Nel dibattito che si è aperto sull’acquisizione della cittadinanza italiana, è intervenuto così il presidente della Comunità di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo: “Trovo paradossale che una discussione sui diritti si sia trasformata in acceso scontro politico, con attacchi rivolti, in particolare, al ministro dell’Interno. Luciana Lamorgese ha giustamente invitato il Parlamento, dove sono depositate da anni alcune proposte di legge sulla riforma della cittadinanza, a trovare una ‘sintesi politica’ su un tema che può essere non affrontato in modo emozionale o, peggio ancora, demagogico, ma con realismo e lungimiranza. Ci sono migliaia di giovani nati in Italia da genitori stranieri lungoresidenti, con un percorso scolastico svolto nel nostro Paese, per i quali sarebbe giusto contemplare prima dei diciotto anni d’età quello ius culturae di cui la nostra Comunità parla ormai da tempo: non farebbe altro che formalizzare un’integrazione nella nostra società che esiste già nei fatti. Affrontare il tema della cittadinanza è anche guardare con fiducia al futuro del nostro Paese”.
Lo ius culturae è la famosa versione tiepida dello ius soli. Mentre il primo propone la cittadinanza a chi, nato in Italia da genitori stranieri, abbia già completato nel nostro Paese un ciclo scolastico, il secondo non pone questo limite, estendendo il diritto a chiunque sia nato in Italia. L’altra forma è lo ius sanguinis, quello cioè che riserva la cittadinanza a chi abbia genitori italiani. Da dove originano queste diverse impostazioni? Potremmo dire che i vocaboli “patria” e “nazione” ci possono aiutare a capire. Mentre la Patria è la terra dei padri, e rimanda dunque l’idea di una cittadinanza riservata ai figli di chi sia nato qui, la nazione, vocabolo che deriva da nascita, indica chiaramente che la cittadinanza appartiene a chi nasce nel posto.
Eppure il nazionalismo, che nel corso della storia del Ventunesimo ha un avuto un veemente ritorno tanto da potersi definire l’unico “ismo” uscito in gran salute dalla fine del Ventesimo secolo, in questo caso è patriottico, non nazionalista. Ritiene cioè di radicarsi in un’idea di nazione che vive però sulla terra dei padri. C’è in questo una spia del motivo di fondo per cui questa ideologia, il nazionalismo, ha avuto un destino diverso dalle altre, come comunismo, socialismo, fascismo e così via. Questo motivo di fondo è molto semplicemente la paura di una perdita di identità causata in molti da una nuova ideologia, quel globalismo che con la globalizzazione economica è parso voler togliere ai popoli la loro identità, creando una melassa globale, un’umanità senza identità. Così il “popolo” è diventato una nazione che ha una sola religione, una sola voce politica, una sola volontà, diversa e, in linea di massima, opposta o incompatibile con altre. Il mito delle invasioni, l’islamizzazione dell’Occidente e l’occidentalizzazione dell’islam, hanno rafforzato opposti nazionalismi estremi nel nome dell’ideologia dell’identità contro il pericolo.
Tutto questo è parte della nostra realtà e fa i conti con oggettive storture del processo della globalizzazione, quella che potremmo chiamare la globalizzazione reale, che toglie a molti popoli la possibilità di decidere il proprio cammino perché globalizzando solo l’economia nell’unico modo accettato, quello liberista, la rende non più disponibile ai poteri politici nazionali.
Tutto questo purtroppo sta conducendo all’esplosione dei fondamentalismi, all’aumento dei conflitti identitari e quindi alla fuga di un enorme numero di persone da luoghi devastati, impoveriti o resi non più ospitali dai contemporanei mutamenti climatici che arroventano, desertificano o allagano intere zone del pianeta, rendendo impossibili colture tradizionali e quindi la sopravvivenza.
In tutto questo però l’Italia, e in gran parte anche l’Europa, fa i conti anche con un altro problema, quello dell’inverno demografico, che presto renderà il processo di invecchiamento irreversibile. Il nostro dunque è diventato quasi irrimediabilmente un Paese di anziani, ormai pressoché privo della possibilità numerica di invertire il dato. Questa indiscutibile verità obbliga a considerare numerose altre questioni, tra le qualità la necessità di nuovi italiani. Rendere di nuovo il nostro Paese appetibile, cosa che non è, per i migranti e per i loro figli che qui nascessero, è dunque una necessità anche occupazionale, previdenziale, culturale, ideativa e non solo.
L’appetibilità di un Paese è data anche dalle condizioni, dalle agevolazioni, dall’accoglienza. Forse accanto all’indispensabile ius culturae sarebbe opportuno cominciare a discutere anche di questo: quanto un Paese di anziani abbia urgentemente bisogno di vita e quindi anche di tornare appetibile ai giovani o ai figli di chi scelga di venire a vivere qui.