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Più microchip, meno fintech. Il grande esodo dei capitali cinesi

Le strette operate da Pechino ai danni delle aziende del fintech provocano una fuga di capitali verso i produttori di semiconduttori, che invece Pechino coccola. In sei mesi investimenti su del 446% mentre nell’e-commerce l’esodo costa miliardi

Quello che in molti temevano è successo. In Cina è cominciata la grande transumanza dei capitali, con un movimento nemmeno troppo lento. Qualcosa di molto simile a una emorragia, frutto di mesi di strette e strozzature nei confronti del fintech cinese (qui l’intervista all’economista Alberto Forchielli). Gli investitori stanno si stanno progressivamente disimpegnando dalle grandi piattaforme tecnologiche cinesi, dirottando i loro capitali sui produttori di chip.

Con ogni probabilità le regole sono diventate così stringenti sul primo fronte (l’ultimo caso è quello delle assicurazioni), da spingere molti investitori a comprare azioni e obbligazioni di aziende produttrici di semiconduttori, laddove invece il governo cinese ha riservato generose sovvenzioni. D’altronde, il settore dei semiconduttori cinese è da poco entrato nel novero di quei comparti che il governo di Pechino vuole a tutti costi sostenere con denaro pubblico, in parte per contrastare l’industria statunitense.

Lo dimostra il fatto che Pechino punta dritto a portare la produzione nazionale di semiconduttori dal 30 al 70% entro il 2025. Una prospettiva che ha attirato come api al miele gli investitori le cui attenzioni fino a ieri erano tutte per il fintech e le sue aziende. Secondo il Financial Times, il valore degli investimenti nelle società cinesi di semiconduttori è aumentato del 446% nel secondo trimestre rispetto al primo, raggiungendo la cifra record di 8,9 miliardi di dollari. E tutto discapito di Alibaba e le sue figlie.

Tanto per fare un esempio, il gruppo manifatturiero Byd semiconductor ha raccolto 1,9 miliardi di yuan (293 milioni di dollari) tra diversi investitori nel solo mese di maggio. Chi ha rimesso, come detto, è il fintech presso il quale gli investimenti nelle società sono diminuiti del 36% a 360 milioni di dollari nel secondo trimestre rispetto al precedente. E per fintech si intende anche l’e-commerce dove gli investimenti sono crollati del 96% nel secondo trimestre.

Numeri che non possono stupire alla luce della repressione operata ai danni del fintech e delle sue aziende. L’ultima zampata è arrivata dall’autorità di vigilanza bancaria e assicurativa che proprio in questi giorni ha deciso di intensificare il controllo delle piattaforme tecnologiche assicurative, applicando quello schema che ha messo in fuga gli investitori, intimoriti da una eccessiva invadenza dello Stato nell’economia.

Più nel dettaglio la commissione ha ordinato alle aziende insuretech e alle agenzie sul territorio di porre fine alle pratiche di marketing che non tutelano sufficientemente la privacy degli utenti. Chi non si adeguerà, hanno raccontato diverse fonti, dovrà affrontare l’ira di Pechino ovvero il possibile ritiro della licenza assicurativa.

L’attacco alle piattaforme online quotate ha colpito colossi quali Waterdrop, Ping An Group, ostacolandone in questo modo le previsioni di crescita. E pensare che quello dell’insurtech è un settore che era previsto crescere fino a 2,5 trilioni di yuan (385 miliardi di dollari) in un decennio. Immediate le reazioni, negative, in Borsa. La piattaforma assicurativa Huize, quotata negli Stati Uniti, ha perso il 5%, il massimo in due settimane mentre Fanhua ha perso quasi il 6%. E le azioni di ZhongAn Online P&C Insurance C sono scese dell’8,7%. Ora anche la fuga degli investitori.

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