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Gioie e dolori della Cina in Afghanistan. Conversazione con Ghiselli (TOChina Hub)

Secondo Andrea Ghiselli (Fudan Un./China Med) la Cina è piuttosto preoccupata da quanto accade in Afghanistan soprattutto sotto il profilo di sicurezza. Al contempo non c’è dubbio che ci siano varie opportunità per la diplomazia cinese per continuare a screditare gli Stati Uniti e cercare di indebolirne l’influenza

La Cina concederà un qualche genere di riconoscimento formale ai Talebani, e d’altronde proseguirà su una traiettoria già avviata da tempo: Pechino dialoga da anni col gruppo che ha ricostruito l’Emirato islamico dell’Afghanistan riconquistando il Paese dopo venti anni di presenza militare statunitense. Lo farà per ragioni pragmatiche e per esigenze, per spingere la narrazione strategica, per proteggere i propri confini e per perseguire alcuni dei propri interessi in Asia Centrale.

La Repubblica popolare è molto preoccupata per come la situazione potrebbe evolversi in Afghanistan. Secondo Andrea Ghiselli, assistant professor alla Fudan University di Shanghai e responsabile alla ricerca del ChinaMed Project del TOChina Hub, mentre il confine comune è limitato e può essere sigillato facilmente, ciò che interessa fortemente Pechino sono due fattori legati al tema sicurezza,

“Il primo — spiega a Formiche.net — è la possibilità che l’Afghanistan diventi l’epicentro del terrorismo internazionale con il rischio di destabilizzare l’Asia Centrale, inclusi i Paesi parte della Shanghai Cooperation Organization e partecipanti nella Belt and Road Initiative. I potenziali danni economici e diplomatici sarebbero sostanziali. Questo è vero sia che siano i Talebani che attivamente cercano di destabilizzare gli altri Paesi, che nel caso di una guerra civile in Afghanistan. L’altra cosa da considerare è che i Talebani hanno dimostrato che forze militarmente e tecnologicamente superiori possono essere sconfitte nel tempo. Anche se il mondo del terrorismo islamico è frammentato, la vittoria dei Talebani, resa ancora più spettacolare dalle scene di diplomatici occidentali in fuga sugli elicotteri, è un simbolo potente per tutti. L’effetto galvanizzante di questa vittoria può sia dare fiducia ad organizzazioni terroristiche in Medio Oriente, tipo in Iraq, dove gli interessi cinesi sono in continua crescita, ma anche nella provincia dello Xinjiang”.

L’aspetto degli interessi diretti cinesi si fonde dunque con l’ispirazione anche indiretta che il trionfo talebano può trasmettere al mondo del jihadismo globale. Per questi motivi non è sorprendente vedere la diplomazia cinese in moto per ottenere due risultati interconnessi fra di loro. “Da un lato — sostiene Ghiselli — i Talebani hanno bisogno di riconoscimenti internazionali e supporto economico”. E qui la Cina ha già fatto un primo passo definendo i Talebani come “un’importante forza politica e militare” con la speranza di influenzare il loro comportamento. “Dall’altro lato — continua — la Cina sta premendo anche perché i Talebani mantengano la promessa di includere altri attori politici nel futuro governo”.

Ma difficile pensare che alla Cina interessi veramente chi è al governo o abbia aspirazioni democratiche per l’Afghanistan: cosa c’è dietro? “La Cina — risponde il docente — spera che questi altri elementi possano moderare le politiche dei Talebani. Allo stesso tempo, la nascita di un governo inclusivo potrebbe evitare lo scoppio di una nuova guerra interna per cui i preparativi sono già in corso e che rischia di lasciare la porta aperta ad altre potenze e organizzazioni terroristiche, rendendo ancora più difficile la stabilizzazione del Paese”.

È vero che in Afghanistan ci sono risorse come petrolio e rame che compagnie cinesi avevano già cercato di estrarre, ma riattivare quegli investimenti è una priorità per Pechino? “Non credo. In questo momento è difficile dire cosa farà la Cina oltre a rafforzare i confini e intensificare il dialogo con gli altri Paesi, inclusi gli Stati Uniti. Il Pakistan sarà sicuramente uno degli interlocutori principali, e non sarebbe sorprendente se ci fosse anche un rafforzamento della cooperazione sull’antiterrorismo con i Paesi confinanti”, spiega l’esperto.

“Sta ai Talebani — continua — fare le mosse giuste per convincere Pechino a dare più supporto, ma non sarà facile visto lo scetticismo generale fra gli analisti cinesi: in pochi, quasi nessuno, crede che i Talebani siano diventati più moderati o che siano veramente disposti a tagliare i ponti con altre organizzazioni terroristiche, incluse quelle che la Cina vede come attive in Xinjiang”.

Pechino sfrutterà quello che ne esce dalla vicenda — il ritiro americano, la contrazione della superpotenza — anche per spingere la propria narrazione di alternativa credibile all’Occidente? “I media cinesi stanno spingendo moltissimo la narrazione che gli Stati Uniti sono una superpotenza fallita e irresponsabile. Alcuni, tipo il Global Times, non hanno esitato a scrivere che gli Stati Uniti abbandoneranno Taiwan come hanno fatto in Afghanistan. Dubito fortemente però che questo punto di vista rifletta ciò che pensa chi comanda veramente in Cina. Anzi, è probabile che i responsabili della difesa cinese si stiano preparando al fatto che l’America si focalizzerà solo sulla Cina e l’Asia ora”.

È d’altronde la ragione alla base che, insieme alla stanchezza dell’elettorato, potrebbe aver spinto un cambio di focalizzazione strategica sotto l’ottica dell’obaminano “Pivot to Asia”. “Ciò detto, non c’è dubbio che ci siano varie opportunità per la diplomazia cinese per continuare a screditare gli Stati Uniti e cercare di indebolirne l’influenza. Per esempio, non sarebbe sorprendente se la questione afgana venisse usata sia per convincere gli europei dell’importanza di una maggiore autonomia strategica, intesa come maggiore distanza da Washington. Sicuramente anche altri Paesi saranno recettivi alle critiche cinesi nei confronti degli americani e, più in generale, l’Occidente”, commenta Ghiselli.


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