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Operazione Velo di Maya sull’Afghanistan

È vero ciò che appare, ovvero che gli Stati Uniti, ritirandosi dopo vent’anni di occupazione, hanno perso in Afghanistan, come persero in Vietnam ritirandosi nel 1975? Oppure l’apparente sconfitta non è tale, anzi è una vittoria, magari su altri tavoli, che cementa la solidarietà euroatlantica? L’analisi di Marco Ciaccia

Raccontano le sacre scritture indù che Parvati, moglie del dio Shiva e figlia di Himalaya, dopo aver abilmente sconfitto a scacchi il marito, ne provocò l’ira, non senza però che le venisse ricordato che la sua vittoria era pura apparenza, sogno, gioco (Maya), essendo Shiva in realtà invincibile.

Allo stesso modo il velo di Maya è sceso sugli altipiani centroasiatici per trent’anni dal ritiro sovietico, e oggi si addensa a chiusura dell’operazione occidentale. Per squarciarlo, sarebbe necessario rispondere a questa domanda: è vero ciò che appare, ovvero che gli Stati Uniti, ritirandosi dopo vent’anni di occupazione, hanno perso in Afghanistan, come persero in Vietnam ritirandosi nel 1975? Oppure l’apparente sconfitta non è tale, anzi è una vittoria, magari su altri tavoli?

La risposta può essere data a partire da tre considerazioni.

Primo, non vi sono stati scontri diretti tra forze americane e Talebani dalle quali le prime siano uscite sconfitte. Secondo, lo sforzo comunicativo dei Talebani è di per sé un ponte aperto verso l’occidente. Terzo, Francia e Germania hanno destinato a questo lontano teatro nel periodo 2001-2021 risorse incomparabilmente superiori a quelle messe in campo per la vicina Libia –vent’anni di continuativa presenza sul terreno contro sei mesi di bombardamenti (per Berlino sulla Libia vi fu addirittura una mozione non-interventista).

L’Afghanistan è stato un testing ground dell’alleanza euroamericana e, per quel che riguarda le due potenze continentali fondamentali, Francia e Germania, un successo completo degli Stati Uniti, che attraverso la cooperazione di sicurezza sul terreno hanno tenuto, o addirittura recuperato, dentro il proprio quadro strategico-militare, Parigi e Berlino, superando la residua mozione autonomista-europea della prima e la riluttanza della seconda a mettere la propria potenza al servizio della strategia atlantica occidentale. Opposizione e riluttanza che, anche durante la rottura tra franco-tedeschi e americani nel 2003 sull’Iraq, non hanno mai toccato l’Afghanistan.

Il dossier afghano è stato gestito fuori da dinamiche e dibattiti ideologici, con il basso profilo tipico dei militari, coinvolgendo gli esecutivi solo al livello di dicasteri della difesa e i Parlamenti solo in sede di approvazione degli stanziamenti, con visite-lampo dei ministri e analisi di background che hanno cementato su punti fondamentali (concetti operativi, dottrine strategiche, sviluppi tecnologici-militari) la cultura delle forze armate dei tre paesi. Attraverso ministeri della difesa e think tank questa lenta fermentazione ha dato frutti politico-culturali duraturi, e ciò soprattutto grazie allo specialismo professionale della comunità di intelligence americana e al pragmatismo post-ideologico dei media anglosassoni nella trattazione dell’errore irakeno. In particolare, alla prima si deve se esso sia stato interpretato dalla dirigenza USA come errore nella costruzione di una narrazione coinvolgente per gli alleati occidentali; ai secondi si deve se la messa a fuoco, nell’opinione pubblica informata, è stata sul casus belli delle armi chimiche di Baghdad, oscurando la dimensione più ampia politico-culturale, ovvero quel pacifismo che è stato completamente esautorato nelle capitali europee dopo il 2003, come evidente poi nel successivo passaggio in Libia del 2011. A ulteriore prova della solidità della strategia messa in campo, nessuna forza di sinistra occidentale ha mai messo seriamente in discussione l’impegno afghano, e anzi l’idea di trasformare l’operazione in una guerra globale del Nord del mondo per i diritti delle donne trova riscontro soprattutto in quegli ambiti.

Nel ventennio dell’egemonia neoliberale apertosi con l’ingresso cinese nella WTO e con il triste spettacolo della strada senza uscita imboccata dall’antiglobalismo (G8 di Genova), l’Irak è rimasto un episodio, superato e a medio termine non ripetibile, mentre l’Afghanistan ha imposto lentamente e sotto traccia un paradigma, metabolizzando le “eccezioni occidentali” dell’autonomismo francese e del semi-pacifismo tedesco nel consenso politico-militare euroamericano. Le tappe sono abbastanza note per la parte francese, in particolare a partire dal 2009, quando con Nicolas Sarkozy all’Eliseo Parigi è tornata a pieno titolo nell’Alleanza Atlantica; successivamente la Francia ha intensificato l’azione securitaria in Africa Occidentale e Sahel rallentando la presa sulle istituzioni europee (impensabile, prima del 2019, che venisse eletto un presidente di commissione tedesco), in pratica decostruendo al di là della retorica interna il senso del gollismo. Meno evidente la correzione di rotta tedesca, con la coalizione Merkel che ha iniziato quell’irrigidimento della postura internazionale rispetto al cosiddetto “errore del 2015” (l’accoglienza di un milione di profughi siriani) che oggi è registrato con soddisfazione dal centro studi sovranista Machiavelli. Probabilmente l’episodio-chiave dell’uscita tedesca dal suo tradizionale riserbo strategico in ambito occidentale sono state le molestie di gruppo dei “nordafricani” al Capodanno 2016 di Colonia, vero 11 settembre europeo che ha smosso equilibri e psicologie politiche ad un livello cui gli attentati di Nizza, Parigi, Berlino e Monaco di Baviera non erano arrivati. Una volta toccati questi livelli, si è messo in moto un dibattito pugnace e per nulla neutrale dal punto di vista delle “opzioni di civiltà”, con tanto di decreti immediati del 2016 a tutela della “pace sociale della Germania”, rafforzata sicurezza interna, e rientro nel ciclo politico-mediatico anglosassone dominato dal tema dello straniero, della risposta alle emergenze umanitarie e dalle passioni e paure legate alla difesa della qualità di vita neoliberale (issues che oggi proseguono sotto traccia dietro la trama pandemica). Ma questo “liberalismo sovrano” escludente, emerso nel ciclo segnato dall’occupazione dell’Afghanistan, per essere tale realisticamente non può essere disarmato, né limitare il suo credo alla regolazione diplomatica dei conflitti. Il Giappone, che fino agli anni Ottanta era considerato parte integrante dell’Occidente, non riesce più a rientrarvi ed accumula, da questo punto di vista, “decenni perduti” non tanto per mancanza di “riforme” ma per la limitazione costituzionale all’intervento militare estero (limitazione pesante, e non aggirabile come è stato nel caso italiano, perché garantita da una doppia ipoteca, quella americana post-bellica e quella emergente della pregiudiziale cinese).

La non-sconfitta americana è in realtà una vittoria che cementa la solidarietà euroatlantica attraverso le capitali un tempo più restie ad accettarne tutte le implicazioni (incluse quelle militari), a partire dalla gerarchia dei numeri dei contingenti presenti in Afghanistan. A questo punto si potrebbe forse dire che, secondo una logica di “zero sum game”, a perdere sia la Cina. Ma se il gioco a somma zero tra America-Occidente e Cina è la cifra dell’ordine neoliberale nella sua auto-narrazione, la rigidità dell’attuale dogma geopolitico non coglie un semplice dato, ovvero che gli USA hanno abbandonato basi come quella di Bagram, a 400 miglia dal confine occidentale cinese.

Leggere questa mossa come un messaggio minaccioso per Pechino (magari come premessa di un nuovo, assai futuribile, pivot anticinese in Asia Orientale e a Taiwan) appare, al momento, un po’ troppo machiavellico. Forse Giappone, Pakistan ed India, cioè gli sconfitti della guerra neoliberale afghana, ne sono già consapevoli. Anche alle nostre latitudini, forse, si comincerà a guardare dopo l’Afghanistan oltre un altro velo di Maya: quello della narrazione egemonica post-trumpiana di una nuova guerra fredda Cina-Usa.


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