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Yukio Mishima, un enigma in cinque atti di Danilo Breschi

Quella scritta da Danilo Breschi è una delle poche biografie contemporanee che riescono a dare il senso compiuto della vita e dell’opera di Yukio Mishima, scrittore, drammaturgo, saggista e poeta giapponese. La recensione di Gennaro Malgieri

Poche biografie contemporanee riescono a dare il senso compiuto della vita e dell’opera del personaggio descritto. E negli ultimi decenni si contano sulle punte delle dita di una mano. Annovero tra queste “perle”, per mio gusto personale e per l’oggettività del trattamento, il saggio che Danilo Breschi, poliedrico studioso, saggista, poeta e indagatore di eccentricità varie, ha dedicato a Yukio Mishima, uno dei più originali e ormai acclamati scrittori del Novecento, la cui lettura, non soltanto per la vasta mole della produzione, è pressoché inesauribile. Il suo Yukio Mishima. Enigma in cinque atti (Luni editrice, pp. 247, € 20,00) è indiscutibilmente il contributo più completo e “partecipe” della vicenda dello scrittore giapponese apparso in Italia. Considerando i saggi di Henry Scott Stokes e di Christopher Ross, si può affermare che il volume di Breschi, pur avendo un taglio diverso, non sfigura affatto accanto ad essi che, anzi, completa affondando la sua riflessione sulla concezione metafisica ed ontologica di Mishima.

Con l’immissione nella vasta materia della sollecitazione di una passione personalissima e dunque di una penetrante interpretazione della scrittura come espressione vitale, Breschi accende una luce nuova che né i citati Stokes e Ross, né il pur raffinatissimo Paul Schrader, autore del film Mishima – Una vita in quattro capitoli, del 1985, presentato al trentottesimo Festival di Cannes, pur elegantemente tentando sono riusciti nell’intento che si proponevano: illuminare la morte di Mishima come il suo capolavoro esistenziale volto in una sontuosa sceneggiatura, stilisticamente accecante e umanamente esaltante.

Quando lo scorso anno è stato ricordato il cinquantesimo anniversario del seppuku (suicidio rituale) di Mishima nell’ufficio del generale Mashita, comandante dell’Agenzia di difesa nippponica, il 25 novembre 1970, non sono mancati interessanti interventi, quasi tutti rispettosi ancorché non sempre di elevato valore esegetico del gesto e dell’opera conclusiva (comprendendo in questa la morte volontaria e il capolavoro in quattro volumi, Il mare della fertilità ). E, per quanto apprezzabili molti saggi, la lunga riflessione di Breschi si è imposta all’attenzione non soltanto per la cura meticolosa dei passaggi cruciali letterari e umani di Mishima, ma soprattutto per aver stabilito connessioni fondatissime e non discutibili tra lo scrittore giapponese e la grande letteratura mondiale degli ultimi due secoli, al punto che, come è stato scritto, egli appare con tutta evidenza, e dopo cinquant’anni di indagini, “scrittore di due mondi”, cioè scrittore universale nella cui opera Oriente ed Occidente si fondono mirabilmente e gli accenti classici delle origini europee si immettono nella tradizione nipponica più ancestrale dando luogo ad una mescolanza intellettuale e spirituale (segnata ed evidenziata dalle scelte di vita dello scrittore) assolutamente grandiosa, come fosse una sinfonia nella quale più anime danno luogo ad un concerto che rimanda a coloro che hanno musicato la Natura secondo un filo continuo che non conosce interruzioni, da Vivaldi a Respighi, a Sibelius a Ravel, soltanto per citarne alcuni.

La musica di Mishima è scritta con i suoni di una fragorosa eruzione, vuoi le opere introspettive e romantiche che quelle potentemente politiche e nazionaliste ed infine in quelle che esaltano identità e corpo facendo vibrare l’anima del lettore che ad esse si accosta. “Ghiaccio incandescente e fuoco vitreo, un vulcano in piena eruzione che si ritrova inchiavardato dentro una bomboniera di finissimo cristallo: solo l’ossimoro può alludere all’effetto provocato dalla lettura di una pagina mishimiana. Vulcanico anche nella composizione, se è vero che, secondo quanto testimoniato dai suoi redattori, egli fosse solito fare una sola stesura, senza quasi nessuna correzione”, annota Breschi. È uno dei caratteri della letteratura di Mishima. Ad esso vanno aggiunti altri, tra i quali, probabilmente, l’abbandono alla fede nella dottrina buddista, ma di questo nessuno può essere certo, neppure Breschi, che però a me convince molto dopo aver letto e riletto Il mare della fertilità, laddove tutto si annulla per rinascere.

E la stessa morte di Mishima è il primo atto di una nuova vita. In fondo, lo scrittore rinacque come samurai, modellando il suo corpo e mescolando il sole dell’ ellenismo con l’epica e l’etica del Nippon Dai. Un ben strano tipo di samurai, si dirà, ma la fedeltà all’ideale nipponico non gli celava altri eroismi intellettuali, da quello di Nietzsche a quello di d’Annunzio, che tentò di imitare nella disciplina interiore che appunto lo fece rinascere. E la sua rinascenza fu un atto di accusa al progresso, come testimoniò in Sole e acciaio.

Scrive Breschi: “Reagire al progresso, non asservirsi al culto del futuro, comunque esso sia presentato e promesso, questo il programma mishimiano. Si tratta di essere radicali e trasgressivi nella reazione al progressismo, scagliando in faccia al ‘culturalismo’ occidentalizzante quella storia e quelle tradizioni che possono maggiormente ostacolarlo: ultranazionalismo aggressivo, gloria militare, etica samurai, la via della spada, religiosa venerazione della figura dell’imperatore, antichi miti di insurrezione e violenza, i kamikaze e altre ‘forme culturali’ del genere”.

Fu tutto questo che lo fece detestare al tempo del suicidio rituale e ben prima che compisse l’ultimo atto? È probabile. A vent’anni aveva visto il suo mondo distrutto dal progressismo più aggressivo che si potesse immaginare. I suoi occhi si chiusero sulle devastazioni di Enola Gay. Il nemico non aveva avuto rispetto per una grande civiltà. Quello stesso nemico che imparò a conoscere e paradossalmente ad apprezzare, tanto da tenere lezioni nelle università americane. Ma al progresso nessuno sconto, proveniente dall’Occidente e inquinante il suo Oriente, la sua “nipponesità”.

Questo era il suo nemico. E oggi che assaporiamo il gusto acre dei derivati del progresso, nelle forme perfino del terrorismo tecnologico, possiamo dire che Mishima aveva visto prima e più lontano?

È uno dei molti interrogativi che suscita il magnifico ed intenso libro di Breschi. Ma ve ne sono altri lungo il percorso che lo studioso ha intrapreso scandagliando la visione del mondo mishimiano. Riassumerli tutti è impossibile. E provarci non sarebbe facile. Come ha scritto il biografo, “il pensiero poetante e letterario di Yukio Mishima è un corto circuito tra il medioevo più feudale, gerarchico e guerriero, ed una modernità talmente avanzata da anticipare il postmoderno”. Per districarsi tra queste selve ubertose e fascinosamente selvagge, Breschi ha scelto la guida migliore, il più grande pensatore contemporaneo , Nicolás Gómez Dávila, il colombiano critico della modernità sorvegliata dagli altopiani delle Ande. Ogni capitolo in exergo si apre con un suo Escolios. Una fedele vedetta. Un amico sconosciuto che nelle contraddizioni sa trovare la via della verità. Come Yukio Mishima.



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