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Manager culturali al posto dei sovrintendenti?

Accendere la luce anziché maledire il buio, recita un vecchio proverbio cinese. Osservando Pompei cadere a pezzi, o il Colosseo chiuso per sciopero con fiotte di turisti costretti ad attese di ore sotto il sole, non si può che provare un moto di vergogna per un patrimonio, quello italiano, primo al mondo per qualità. Ma non altrettanto alla voce “entrate”.

Guardare alla cultura italiana come a una risorsa industriale formando manager della cultura da impiantare nei ministeri e far fruttare l’immenso patrimonio italiano, dovrebbe essere un obiettivo alla portata di un governo riformatore. Perché al fine di far tornare l’Italia al primo posto delle mete turistiche mondiali (siamo dietro Francia e Cina) occorre una cura choc: immediata e coraggiosa. Immaginare il turismo culturale come una molla su cui edificare il tessuto occupazionale che oggi non trova sbocchi e come un doppio investimento: che arricchisce in quanto cultura e che produce utili.
Ma per farlo occorrono manager “allenati” alla cultura, più che figure promosse con in mano il manuale Cencelli.

Quanti altri Paesi possono vantare al proprio interno la varietà e la qualità di luoghi simbolo della cultura mondiale come i Fori romani, il tempio di Selinunte, il rinascimento fiorentino, i castelli di Ferrara, Mantova, Verona, l’unicità assoluta di Venezia? E ancora, le tre cime di Lavaredo, le Cinque terre, e si potrebbe continuare per ore. Ragion per cui in un momento di penuria totale di entrate e fondi pubblici, è semplicemente folle e irresponsabile non immaginare un strutturazione industriale del binomio cultura-turismo per un Paese che potrebbe vivere solo di quello. Ma non lo fa per l’incuria di un trend che può ancora essere invertito: con coraggio e irriverenza.

Abaton
twitter@FDepalo



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