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Aiuti umanitari per Kabul. Consigli per il G20 italiano

Servono programma straordinario di aiuti umanitari e una proposta operativa su cui misurare non più le conferenze stampa e le parole, ma le vere intenzioni dei talebani e i comportamenti conseguenti. Il commento di Marco Mayer

Dopo il tragico attentato di giovedì il futuro dell’Afghanistan appare ancora più buio. Per un’analisi accurata della situazione sul campo occorre innanzitutto ricordare un dato sinora trascurato dalla stampa internazionale.

Tra il 2018 e il 2020 il ramo afgano dell’Isis (Khorasan) ha compiuto almeno 12 attentati terroristici che hanno provocato più di 400 morti e un numero maggiore di feriti tra la popolazione civile afgana. Ma soltanto dopo Il tragico attentato all’aeroporto di Kabul si sono accessi i riflettori dei principali media internazionali sul gruppo dello Stato islamico che da alcuni anni operava in Afghanistan. Negli ultimi anni molte persone – non parlo ovviamente degli analisti – hanno addirittura confuso la disfatta nei territori occupati in Iraq e Siria con la sconfitta definitiva dello Stato islamico.

I tragici eventi di giovedì sollevano nuovi e inquietanti interrogativi sulle sorti dell’Afghanistan dopo il 31 agosto prossimo. Il pericolo che il territorio del Paese continui a restare un porto sicuro per le organizzazioni terroristiche è destinato a crescere. Nonostante tre giorni di alert diramati con rara tempestività dai servizi di intelligence (riservatamente e pubblicamente) i talebani non sono riusciti a impedire agli attentatori dello Stato islamico nel Khorasan di accedere al perimetro antistante lo scalo aeroportuale.

Ciò ha accentuato i dubbi non solo sulla “affidabilità” dei talebani, ma anche sulle loro capacità di garantire la sicurezza e controllare un territorio cosi complesso dopo il ritiro dei contingenti militari internazionali. Ho ragioni per dubitare che i talebani siano cambiati “profondamente” come ha scritto recentemente Lucio Caracciolo, ma quello che contano sono i fatti.

La disputa su se e quanto sono cambiati i talebani rischia di essere l’ennesima sterile disputa accademica. Me ne viene in mente con amarezza un’altra sull’Afghanistan che si è rivelata assurda e controproducente. Negli ultimi due anni Stati Uniti, alleati europei e leadership afgana hanno a lungo disquisito su quanto tempo avrebbe potuto resistere l’esercito afgano dopo il ritiro della presenza internazionale. I pareri sono stati diversi, ma la vittoria finale dei talebani è sempre stata data per scontata. Non c’è un grande incentivo a combattere quando i tuoi partner e i tuoi capi prevedono che al massimo entro 18 mesi, forse 12, probabilmente 6, o forse addirittura poche settimane, sarai sicuramente sconfitto.

Se non assolve i leader politici afgani che si sono dati alla fuga né i capi miltari che hanno disertato, questo elemento mette in discussione i contenuti essenziali dell’accordo raggiunto dall’ex presidente statunitense Donald Trump e dal suo segretario di Stato Mike Pompeo con i talebani a Doha nel febbraio 2020. Sarebbe doveroso conoscere i dettagli riservati dell’accordo di Doha che ancora non conosciamo. Senza la disponibilità piena dei documenti è difficile rispondere all’interrogativo cui ho accennato nei paragrafi precedenti. Se prometti di ritirarti entro il 31 maggio 2021 e la vittoria dei talebani (prima o poi) è data per scontata che senso ha quanto è accaduto? Di fatto Doha ha o non ha implicitamente previsto – dopo il ritiro delle forze internazionali – una resistenza combattente dell’esercito afgano nell’inutile tentativo di fermare l’avanzata talebana? Non sono in grado di rispondere, ma c’è è qualcosa che non torna.

L’ipotesi che gli errori non siano solo relativi alle modalità di ritiro, ma che l’impostazione stessa di Doha fosse intrinsecamente ambigua e sbagliata merita di essere seriamente investigata. Forse Pompeo potrebbe aiutarci a capire se e dove cercare il peccato originale?

Dopo il 31 agosto la compresenza in Afghanistan di Stato islamico, Al Qaeda e altre milizie fondamentaliste si conferma un grave pericolo per il popolo afgano, per i Paesi circostanti e per tutto il mondo.

E tutta l’area è decisamente turbolenta. Basta citare un solo esempio: durante questa estate, il Pakistan non è riuscito a bloccare gli attentati che da anni colpiscono sistemicamente nella grande regione del Belucistan cittadini e imprese cinesi. Che fare? A questo punto per capire nell’immediato le vere intenzioni dei talebani ci sono due passaggi ravvicinati.

Il primo dilemma è politico. Punteranno al monopolio del potere o cercheranno di coinvolgere nel governo anche i leader delle molteplici componenti (etniche e territoriali) in cui l’Afghanistan è storicamente suddiviso? Se dovessero scegliere la prima opzione – considerata la frammentazione del Paese – la situazione potrebbe implodere in tempi rapidissimi per l’impossibilità dei talebani da soli di garantire minimi standard di sicurezza.

Il secondo dilemma che I talebani devono sciogliere riguarda la dimensione umanitaria. Il passaggio da una lunghissima e massiccia presenza militare a un intervento esclusivamente umanitario si presenta sempre piena di rischi per tutte le parti in causa. Per i talebani è un nodo cruciale da sciogliere non tanto perché esso può favorire (e non poco) una prima forma di legittimazione internazionale della loro presenza al governo. Il vero disastro che devono evitare è che durante l’inverno ormai alle porte la popolazione afgana non abbia gli aiuti alimentari, idrici, sanitari nonché la logistica e i trasporti per sopravvivere. In un simile contesto non sarebbe neppure possibile alcun tipo di evacuazione all’estero dei cittadini afgani che sono rimasti intrappolati nel Paese e che rischiano la vita (compresa una parte del personale afgano delle agenzie Onu e di molte Ong). Nel breve termine il dramma afgano richiederebbe non solo una adeguata assistenza a chi è riuscito a uscire dal Paese, ma anche e soprattutto un forte irrobustimento della presenza sul terreno di Wfp, Oms, Iom, Unhcr, Echo, Mezza Luna e Croce Rossa Internazionale, organizzazioni non governative internazionali come Emergency, e tante altre.

La priorità dell’iniziativa umanitaria dovrebbe ovviamente avere come obiettivo primario la tutela dei diritti dei bambini, dei diritti delle donne e di tutte le persone che per varie ragioni sono costrette a lasciare il Paese.

È uno sforzo possibile? La verità è che dipende dai talebani se una simile ipotesi sarà o non sarà fattibile.

Nell’attesa della formazione di un governo afgano la presidenza italiana del G20 dovrebbe porre, a mio avviso, al centro della discussione sull’Afghanistan l’ipotesi di un programma straordinario di aiuti umanitari (assicurando anche collegamenti e trasporti) per tutto il popolo afgano, sfollati e rifugiati compresi. Serve una proposta operativa su cui misurare non più le conferenze stampa e le parole, ma le vere intenzioni dei talebani e i comportamenti conseguenti.

Se – per evitare intrusioni e occhi indiscreti – i talebani si chiuderanno in un fanatico autoisolamento i conflitti interni saranno destinati a riesplodere e l’estremismo religioso mostrerà ancora una volta in Afghanistan tutto il suo cinismo e la sua ferocia.

Per memoria ricordo anni fa di aver collaborato con la Regione Toscana per la riabilitazione sanitaria di un contadino afgano a cui le milizie talebane avevano tagliato di netto il naso per il solo motivo che era andato a votare. È solo uno dei tanti episodi di una lunghissima catena di violenze e crudeltà che non si possono e non si devono dimenticare.

Nel preparare l’ipotesi umanitaria a cui ho accennato non si possono dimenticare né il Pakistan (che come abbiamo visto non riesce a bloccare il terrorismo interno anticinese) né l’Iran (molto vicina alla comunità hazara da sempre perseguitata dai talebani). Questi Paesi non fanno parte del G20, ma guai a trascurarli: in positivo o negativo potrebbero svolgere un ruolo assai significativo nel dramma afgano. Durante le ultime settimane l’immagine e la credibilità internazionale dell’Occidente hanno subito un colpo durissimo.

A questo punto – dopo i litigi sulle modalità e i tempi di ritiro dei soldati – Stati Uniti e Unione europea avrebbero il dovere morale di ritrovare una vera intesa su come agire nei prossimi mesi, in particolare come ha detto il presidente del Consiglio Mario Draghi su come coinvolgere Russia e Cina nella crisi afgana. Avviare un’incisiva azione umanitaria in Afghanistan e per l’accoglienza dei profughi potrebbe essere un primo passo nella giusta direzione. Tuttavia, l’attentato di giovedì ci dice che è un tentativo da compiere senza troppe illusioni. I talebani che nessuno è veramente in grado di controllare sembrano loro stessi non in grado di controllare la situazione. E la loro affidabilità è anche messa in discussione da frammentarie, incontrollabili, ma bruttissime notizie sulla condizione delle donne che filtrano da villaggi e campagne dell’Afghanistan.

Vedremo. L’importante è che il pessimismo dell’intelligenza non si trasformi in sterile impotenza. All’Italia spetta la responsabilità di presiedere il G20 in un momento storico davvero molto difficile. Dopo gli insuccessi dell’Occidente l’Italia di Draghi ha oggi il dovere di rilanciare i valori di libertà e solidarietà – a cui si ispira la nostra Costituzione – suggerendo alla “comunità” internazionale una nuova strada da intraprendere per l’Afghanistan (e non solo).

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