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Consigli per lo sviluppo

Alcune considerazioni generali sul tema della crescita possono essere utili per inquadrare il problema. Gli storici economici dell’Europa tendono a dividere il secondo dopoguerra in due periodi: il primo va dal 1950 al 1973; il secondo dal 1973 ad oggi. Nel primo periodo l’Europa è cresciuta in media del 4,6% all’anno, nel secondo periodo dell’1,8%. L’Italia nella prima fase crescendo in media del 5,2% (e con una punta del 6,2% nel 1962), ha fatto meglio della Francia (4,0%), della Germania (5,0%) e del Regno Unito (2,5%). Nella seconda fase con l’1% l’Italia è stata costantemente al di sotto della media dell’Eurozona, pari all’1,6%. Il primo periodo era costituito dagli anni dell’economia mista, che si basava su alcuni pilastri: un sistema “chiuso” con un debito pubblico tutto interno; un’impresa pubblica che contava per circa la metà della grande industria e con monopolisti che realizzavano le infrastrutture strategiche del Paese; un settore pubblico ampio e in costante crescita, che assicurava un flusso di salari garantiti, che hanno contribuito a creare quel risparmio su cui le imprese artigianali del centro nord sarebbero diventate il sistema delle Pmi più internazionalizzate del mondo occidentale; un debito pubblico al di sotto del 50%, sostenibile grazie agli alti tassi di crescita; ed, infine, la svalutazione competitiva. L’economia mista rappresenta il passato. Può essere utile da studiare per disegnare quello che verrà, ma ovviamente, indietro non si torna.
All’inizio degli anni Novanta si decide di avviare il processo verso l’euro. In un documento ufficiale della Ue “One Money, one Market” (1990), si stimava che la formazione di una unione economica e monetaria, avrebbe portato nell’Eurozona un aumento del tasso di crescita a medio termine del Pil del 4,5%. Malgrado l’euro sia stato effettivamente foriero di vantaggi per tutti i Paesi dell’Eurozona, non ha tuttavia portato l’aumento di crescita previsto.
 
Incentivare la crescita “export led”
Con la crisi il problema si è acuito. Secondo la Bce (aprile 2012), i tassi di crescita dell’area-euro, potrebbero tornare almeno ai livelli pre-crisi già dal prossimo anno (con una forchetta che va dallo 0 al 2,2%). Ma cosa fare per mantenere o aumentare i tassi di crescita previsti? La nostra proposta è quella di agire su due fronti: (1) aumentare la quota del Pil prodotta o esportando o lavorando all’estero (vedi l’esempio della Germania). La crescita che caratterizzerà lo sviluppo dei 2/3 delle economie del mondo (quelle emergenti) nei prossimi decenni sarà di straordinarie dimensioni. Un’occasione unica, non solo per esportare prodotti, ma anche per portare all’estero tecnologie, know-how, finanza e, in generale, opportunità di lavoro; (2) attirare capitali dai Paesi in surplus su progetti di investimento in infrastrutture in Europa, creando una cornice regolamentare e fiscale molto più attraente di quella attuale.
 
Cosa fare? Qualche consiglio al governo
Consigliamo di agire parallelamente su tre tipi di interventi possibili. I primi riguardano le cosiddette riforme di struttura; esse hanno due vantaggi: sono “permanenti” e piacciono ai mercati (e quindi possono avere un effetto positivo quasi immediato sugli spread); hanno però lo svantaggio di avere generalmente effetti positivi sulla crescita solo nel lungo periodo; anzi, nel breve, c’è il rischio che abbiano un costo. I secondi, riguardano interventi “straordinari” sullo stock e sulla composizione del nostro debito pubblico (privatizzazioni e/o forme di debt swap, o un prestito forzoso o altro; opzioni tutte ancora da valutare). I terzi, sono interventi mirati che producono rapidamente effetti positivi sulla crescita. Su questo fronte, parallelamente alla spending review, per ristrutturare selettivamente la spesa pubblica, sarebbe utile avviare una growth review e una infrastructure review. La prima avrebbe l’obiettivo di studiare la composizione del Pil e fare interventi direttamente su quei settori che hanno nel breve maggiori potenzialità di crescita; la seconda è quella di individuare quelle infrastrutture che, anch’esse, hanno maggiore impatto positivo sui fattori di produzione nel breve periodo. Le due analisi messe insieme permetterebbero di stimolare la crescita in tempi relativamente più rapidi, che è quello di cui al momento abbiamo più bisogno.
 
Concludiamo con una lista di proposte concrete: (1) utilizzare le risorse recuperate dall’evasione fiscale in parte per dare forti incentivi fiscali alle Pmi più internazionalizzate e in parte per abbassare l’Irpef sui redditi più bassi per stimolare i consumi; (2) riordinare il sistema delle utility locali dove si annidano una larga parte dei costi della politica e dove una migliore gestione può significare maggiori investimenti e tariffe più basse per i cittadini; (3) avviare un grande progetto sull’efficienza energetica dando mutui agevolati alle famiglie (oggi oltre l’80% del patrimonio abitativo privato è in stato di obsolescenza e interventi di ristrutturazione ed energy efficiency potrebbero essere un grande volano di sviluppo e lavoro, e insieme permetterebbero ai cittadini di risparmiare energia e di valorizzare il proprio patrimonio immobiliare); (4) trovare il modo di pagare parte dei debiti pubblici ai fornitori; (5) velocizzare i meccanismi di realizzazione e finanziamento delle infrastrutture (ma su questo il governo ha già le idee chiare); (6) riformare (e/o velocizzare) il sistema attuale di aiuti alle imprese (la complessiva Filiera della garanzia, i fondi equity per le Pmi e per le imprese medio-grandi strategiche); (7) migliorare l’utilizzo dei fondi europei; (8) riordinare il patrimonio pubblico, sia sul fronte di una migliore gestione e sia sul fronte della privatizzazione dei beni non strumentali, attraverso operazioni straordinarie a riduzione del debito, infine (9) la riduzione dell’imposizione sulle imprese, con una riforma fiscale che a parità di gettito, modifichi drasticamente le convenienze delle imprese a favore degli investimenti, che sono il vero veicolo della produttività.
 


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