Chiamato in audizione al Copasir, il diplomatico della Nato protagonista dell’evacuazione da Kabul ha suonato un allarme: bisogna portare fuori dall’Afghanistan chi ha collaborato con l’Italia, asse con il Pakistan per i passaggi al confine Est. Pericolo terrorismo, il Paese può diventare un santuario
L’Italia non ha chiuso i conti con l’Afghanistan. A Kabul, a Herat, a Kandahar c’è ancora chi spera di poter lasciare alla volta di Roma un Paese ormai in balia della violenza e della repressione talebana. Collaboratori dell’esercito e dell’intelligence, cuochi, insegnanti, o anche solo afgani che hanno parenti nello Stivale non saranno lasciati indietro.
In un’audizione al Copasir, il comitato parlamentare di controllo dei Servizi, l’ambasciatore Stefano Pontecorvo, Senior civilian representative della Nato in Afghanistan ha tracciato la road map per portare fuori dal Paese chi è rimasto intrappolato. Servirà un fine lavorìo della Farnesina e degli 007 italiani con i Paesi limitrofi che più hanno voce in capitolo sui futuri equilibri del neonato Emirato islamico, ha spiegato il diplomatico, protagonista della fase di evacuazione dei Paesi Nato dopo la presa talebana di Kabul e tornato in Italia con l’ultimo volo dell’esercito.
Su tutti un nome: il Pakistan. È il vero azionista del governo talebano guidato da Mohammad Hasan, e non ne fa mistero, come dimostra la passeggiata per Kabul, a favor di telecamere, di Faiz Hameed, direttore dell’Isi (Inter-services intelligence), l’intelligence pakistana. Non è un caso la recente visita del ministro degli Esteri Luigi Di Maio alla frontiera est del Paese asiatico, lungo il confine di 2640 chilometri fra Pakistan e Afghanistan, all’altezza della base militare di Torkham. Da lì, secondo i piani del governo italiano, dovranno passare gli esuli afgani che hanno un credito aperto con il Belpaese. Più facile a dirsi che a farsi, perché la mediazione con gli “studenti coranici” al potere è tutta in salita. Una continua altalena fra aperture e promesse prontamente smentite dai testimoni sul campo.
Questo giovedì il governo ad interim ha assicurato che gli stranieri rimasti in Afghanistan potranno lasciare il Paese e che l’aeroporto Hamid Karzai di Kabul è tornato operativo. Un primo volo, un Boeing 777 qatarino con 200 persone a bordo fra cui americani e canadesi, ha lasciato oggi l’aeroporto. Rimane però un grande punto interrogativo: che ne sarà degli afgani che negli anni hanno lavorato per i governi occidentali? Potranno anche loro continuare l’esodo?
Non sarà facile, ha spiegato al Copasir Pontecorvo, perché i talebani hanno posto due requisiti per dirigersi al confine e varcarlo: documenti di identità e visto. Poco meno di una boutade, in un Paese dove le ambasciate hanno chiuso una ad una e così i servizi consolari. Di qui la scelta italiana di puntare sul Pakistan per trovare un compromesso con i Talib. Ma la diplomazia di Roma avrà, dovrà avere un perimetro più ampio, ha ribadito a Palazzo San Macuto il diplomatico della Nato.
“All’esigenza di una efficace collaborazione e integrazione dell’intelligence e della difesa europea nel quadro dell’Alleanza Atlantica, per consentire all’Europa una maggiore autonomia” dovrà aggiungersi, si legge in un comunicato del presidente del comitato e senatore di Fratelli d’Italia Adolfo Urso, “il ruolo di potenze regionali ed internazionali come Cina, Russia, Turchia, India e Pakistan”.
Avanti dunque con linea già tracciata dal premier Mario Draghi in vista del G20 straordinario presieduto dall’Italia: bisogna parlare con tutti. Un imperativo per scongiurare lo scenario peggiore, che è quantomai realistico, ha avvertito Pontecorvo: che l’Afghanistan non torni ad essere un santuario del terrorismo internazionale. I fatti delle ultime settimane, dall’attentato a Kabul rivendicato dall’Isis nel Khorasan fino alle commistioni fra talebani e Al-Qaeda, hanno già suonato un campanello d’allarme.