Con la proposta di giungere, quanto prima, ad una riforma del catasto, al di fuori di quella visione di sistema che sarebbe necessaria, si torna all’antico. La sensazione è che anche la ventilata riforma del catasto serva soprattutto a fare cassa. Il commento di Gianfranco Polillo
Per la verità eravamo rimasti alle parole di Mario Draghi. Poi il Parlamento, pressato dalle più imminenti scadenze elettorali (amministrative e prossime politiche), ha voluto dire la sua. E quel disegno originario, che poteva desumersi dalle parole del premier, si è completamente offuscato, sulla spinta degli interessi più immediati dei diversi gruppi parlamentari. Interessi così chiaramente individuabili nel documento di sintesi, presentato dalla Commissione finanze della Camera dei deputati.
Mario Draghi, nel discorso sulla fiducia, era stato di una chiarezza esemplare. Come al solito, verrebbe da dire: “Negli anni recenti – aveva ricordato – i nostri tentativi di riformare il Paese non sono stati del tutto assenti, ma i loro effetti concreti sono stati limitati. Il problema sta forse nel modo in cui spesso abbiamo disegnato le riforme: con interventi parziali dettati dall’urgenza del momento, senza una visione a tutto campo che richiede tempo e competenza. Nel caso del fisco, per fare un esempio, non bisogna dimenticare che il sistema tributario è un meccanismo complesso, le cui parti si legano una all’altra. Non è una buona idea cambiare le tasse una alla volta. Un intervento complessivo rende anche più difficile che specifici gruppi di pressione riescano a spingere il governo ad adottare misure scritte per avvantaggiarli.
“Inoltre, – aveva aggiunto – le esperienze di altri Paesi insegnano che le riforme della tassazione dovrebbero essere affidate a esperti, che conoscono bene cosa può accadere se si cambia un’imposta. Ad esempio la Danimarca, nel 2008, nominò una Commissione di esperti in materia fiscale. La Commissione incontrò i partiti politici e le parti sociali e solo dopo presentò la sua relazione al Parlamento. Il progetto prevedeva un taglio della pressione fiscale pari a 2 punti di Pil. L’aliquota marginale massima dell’imposta sul reddito veniva ridotta, mentre la soglia di esenzione veniva alzata”.
Del resto fu quella la strada seguita anche dall’Italia nel corso degli anni ’70. Una commissione prestigiosa, presieduta da Cesare Cosciani, che prefigurò un intervento organico. Quindi l’attuazione, seppure parziale di quel disegno, ad opera soprattutto di Bruno Visentini. Ed infine la nascita dell’Irpef e del “sostituto d’imposta” (il prelievo alla fonte): un sistema che dura da quasi cinquant’anni. Speculare, almeno per un lungo periodo, alla dinamica dell’economia nazionale.
Con la proposta di giungere, quanto prima, ad una riforma del catasto, al di fuori di quella visione di sistema che sarebbe necessaria, si torna quindi all’antico. Non che riformare questo vecchio istituto non sia necessario. Da un punto di vista urbanistico l’Italia, negli anni, è profondamente cambiata. Quelle che erano una volta zone periferiche sono divenute semi centrali. Mentre al centro la rendita differenziale ha fatto lievitare i valori di mercato. Al tempo stesso il passaggio dai “vani”, come centro di imputazione del tributo, ai metri quadri, costituirebbe una sacrosanta razionalizzazione.
Si deve solo aggiungere che l’Europa ci chiede da tempo questa riforma, sebbene essa rappresenti, in quel caso, il tassello di un tema ben più generale: la necessità di accentuare la tassazione sulle cose (merci ed abitazioni) per ridurre la pressione sulle persone. Difficile darle torto. Un simile approccio non solo è meno distorsivo, ma garantisce al singolo maggiori margini di libertà. Per chi paga le tasse, non certo per gli evasori, c’è sempre la possibilità di scegliere tra un tipo di consumo ed un’altro. E quindi ridurre l’impatto fiscale. Ma quando il prelievo è forzoso ed avviene alla fonte, come nel caso dell’Irpef, questa facoltà è negata in radice.
Tuttavia, le nostre perplessità, se non altro sul metodo, rimangono. La sensazione è che anche la ventilata riforma del catasto serva soprattutto a fare cassa. Se fossero vere le indiscrezioni che parlano di aumenti fino al 174% a Milano, del 108% a Napoli o del 56% a Roma sarebbe una vera e propria mazzata. Difficile calcolare come potrebbe variare il gettito complessivo dai quei 17 miliardi, che ha fruttato, nel 2020, la sola Imu comunale.
Il maggior gettito dovrebbe servire per finanziare la riduzione dell’Irpef su quella parte di ceto medio, che oggi è particolarmente penalizzato. E di cui si parla tanto, nell’imminenza della tornata elettorale. Del resto i precedenti in materia sotto forma di elargizioni varie – dai famosi 80 euro di Renzi al salario di cittadinanza dei 5 stelle – dimostrano quanto quelle misure fossero state efficaci sul piano della conquista del consenso.
Eccesso di malizia? È possibile. Ma i confronti internazionali, in qualche modo, ci danno ragione. La situazione italiana non è poi così lontana da quella di altri Paesi europei. L’ultima revisione del catasto risale infatti al 1990 per i fabbricati ed al 1988 per i terreni. Nel 2005 si tentò, in alcune “microzone” (tra cui Roma e Milano), di rivalutarne la classazione e quindi la rendita, ma il tentativo fu stoppato dalla Corte costituzionale. Nel 2011, infine, Mario Monti, sostituendo l’Imu all’Ici, introdusse dei moltiplicatori che aumentarono fortemente il gettito, senza incidere, tuttavia, sulla struttura del tributo.
In Germania i valori degli immobili sono fermi al 1964 per i Lander dell’ovest ed addirittura al 1935 per quelli dell’est. Questa disparità ha sollevato critiche furibonde, al punto da smuovere la stessa Conte costituzionale. In caso di ulteriore inerzia sarebbe intervenuta. Nel 2019 è stata quindi approvata la legge di riforma. Data la complessità dell’intervento, il nuovo sistema dovrebbe entrare in funzione solo nel 2024. Dopo cinque anni quindi. In Germania. Figuriamoci in Italia.
In Francia il catasto è quello della metà degli anni ’70. Situazione simile a quella italiana, alla quale si è fatto fronte con coefficienti di attualizzazione, che hanno aumentato il prelievo fiscale, senza per altro introdurre alcun elemento di equità. Stessa musica in Spagna. Salvo gli aggiornamenti indotti dalle richieste (non molte) dei singoli comuni, i valori più aggiornati risalgono al 1984, a dimostrazione di quanto sia difficile e complessa la gestione di questa imposta. Sebbene gli strumenti della modernità – dall’informatica all’uso delle fotografia aeree – siano in grado di realizzare obiettivi fino a ieri ritenuti impensabili.
Ma per tornare a noi. C’è un secondo aspetto legato alla tempistica. Il momento dell’annuncio non sembra tra i più propizi. Considerando il fatto che si potrebbe anche partire subito. Ma per giungere al traguardo – tempi tedeschi – solo fra quattro o cinque anni. Il tempo di una legislatura, che rafforza il ragionamento iniziale di Mario Draghi. Alla stessa conclusione porta la congiuntura. I buoni andamenti dell’economia del secondo trimestre, secondo il report dell’Istat, sono stati anche conseguenza della forte ripresa degli investimenti nel comparto dell’edilizia.
Dopo anni di crisi nera, gli investimenti sono aumentati, dal punto di vista congiunturale, del 3 (abitazioni) e del 2,9% (fabbricati). Cifre che diventano pari al 53,1 e 55% nel confronto rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. A dimostrazione della profondità del baratro di partenza. Comunque una piccola luna di miele che non vorremmo si interrompesse all’improvviso, di fronte all’annuncio di una riforma, sganciata da tutto il resto, foriera di nuove e maggiori aggravi su un comparto, come quello dell’edilizia, tutt’altro che in salute.
Lo dimostrano i dati direttamente forniti dalla Commissione europea, nell’ambito delle procedure dell’Alert mechanism. Quel sistema di indicatori economici e finanziari, organizzati in batteria, per prevenire i futuri squilibri macroeconomici. Sistema che fu messo in piedi, nel 2011, a seguito del parziale default della Grecia. Al fine di evitare di ripetere gli stessi errori. Da questo particolare punto d’osservazione, il confronto con gli altri Paesi è particolarmente inquietante.
Ancora nel 2019, ultimo dato disponibile, i prezzi delle abitazioni, in Italia, avevano subito, rispetto al 2010, un deprezzamento pari al 25% su base annuale. Addirittura del 43%, come media del triennio. Differenze che stavano ad indicare i leggeri progressi dei mesi più recenti. Peggio del Bel Paese solo la Grecia (- 35 e -77% su base annuale e triennale) e la Romania (-30 e – 38%). Quando l’incremento medio dei prezzi delle abitazioni in tutte Europa era stato dell’11%. Con punte del 36%, in Germania e del 6% in Francia.
La stessa Spagna che durante la grande crisi era stata vittima della bolla speculativa alimentata dall’edilizia, trascinando nel baratro le banche finanziatrici, si trova in condizioni leggermente migliori rispetto all’Italia: con una caduta dei prezzi, pari 19 ed al 45% (base annuale o triennale). Senza contare il contributo europeo. Quei finanziamenti ottenuti prima dal Fondo salva stati e poi dal Mes, ai quali il nostro Paese aveva contribuito pro quota. Insomma: un paradosso nel paradosso. Su cui sarebbe il caso riflettere, prima di altre mosse avventate.
Ed allora “torniamo allo Statuto” ovvero all’originale posizione di Mario Draghi. La riforma fiscale è troppo importante per essere affidata a mani inesperte. Soprattutto nel vortice di quella tempesta, che sarà un vero e proprio percorso di guerra: le prossime amministrative, quindi l’elezione del Presidente della Repubblica ed, infine, le politiche. Madre di tutte le battaglie, per ristabilire il giusto e necessario rapporto tra “Paese reale” e “Paese legale”. Che dovrebbe consigliare di non commettere inutili azzardi.