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Nel riordino del catasto non aggiungere iniquità a iniquità

Ben venga l’aggiornamento, ma sia fatto a valori reali di mercato e con efficienza. Al tempo stesso si avanzi verso un ribilanciamento degli altri prelievi sulla proprietà immobiliare, altrimenti si tratterà soltanto di un’operazione di aumento di carico fiscale per generare maggiore gettito. L’analisi di Salvatore Zecchini

Anche in questa legislatura torna alla ribalta il problema dell’aggiornamento del catasto col duplice scopo di rendere l’imposizione fiscale sulle abitazioni più equa e di generare maggior gettito. Quest’anno il ritorno avviene in un contesto diverso da quelli precedenti. Si sta uscendo da una profonda recessione economica attraverso una vivace ripresa, ma le maggiori entrate che ne deriveranno non bastano a riportare su livelli sostenibili il disavanzo pubblico, allargatosi oltremisura durante le crisi sanitaria.

Per ottenere indispensabili finanziamenti dall’Ue il governo si è impegnato ad attuare un dettagliato piano di rilancio economico (Pnrr), che comprende tra l’altro l’attuazione entro il 2026 di una riforma fiscale coerente con le raccomandazioni di Bruxelles. In particolare, ha preso l’impegno di far approvare dal Parlamento quest’anno una legge che gli conferisca la delega a definire i termini della riforma sulla base degli indirizzi generali su cui vi sia il consenso parlamentare. Ancor prima della presentazione della proposta di legge delega sono affiorate le opposizioni di alcune forze politiche alla proposta di procedere a una revisione del catasto che sia più aderente dell’attuale all’effettivo patrimonio degli immobili esistenti e dei loro valori. Va sottolineato che questi ultimi non possono che derivarsi dalla valutazione che ne darebbe il mercato.

Concretamente, si progetta di eliminare le sacche di immobili sfuggiti alla registrazione catastale e di rendere il carico fiscale sulla rendita immobiliare più equamente ripartito sulla base di realistici parametri fisici ed economici. Negli scorsi anni, invero, si sono introdotti limitati aggiustamenti, ma permangono diverse disparità di trattamento tra immobili sia nell’attribuire una rendita a fini fiscali, sia nel fare riferimento al numero di vani piuttosto che alla superficie dell’immobile. Il risultato è che immobili meno pregiati, come quelli nella periferia delle città, sono tassati in misura comparativamente maggiore rispetto a quelli di maggior valore o pregio. Si parla, quindi, di una riforma che elimini queste iniquità e proceda verso una redistribuzione dei carichi a vantaggio dei proprietari meno abbienti. Le raccomandazioni di Bruxelles, d’altronde, non entrano nei dettagli della riforma, ma chiedono di spostare in parte la pressione fiscale dai redditi da lavoro su altri cespiti, in particolare attraverso l’aggiornamento dei valori catastali e la riduzione delle agevolazioni fiscali.

Ispirarsi all’obiettivo di equità e redistribuzione fiscale nell’approccio alla riforma del catasto, per quanto condivisibile e dovuto, rischia tuttavia di aggiungere nuove iniquità a quelle esistenti, perché tende ad aumentare l’onere della tassazione su molti immobili senza tener conto del suo peso complessivo già gravante sulla proprietà immobiliare, né del suo peso relativo nel confronto con altri cespiti nel contesto del sistema tributario. Questo è il tipico difetto di intervenire su un ristretto aspetto del sistema ritenendo di ottenere maggiore equità nell’insieme, mentre altre parti ben più importanti della tassazione meriterebbero parimenti significative correzione per evitare che interventi puntuali generino nuovi squilibri.

Quali aspetti considerare? I principali riguardano l’effettivo carico fiscale che grava attualmente sugli immobili abitativi, l’effetto che la tassazione ha sull’investimento immobiliare e sull’industria delle costruzioni, già messa a dura prova dalla recessione, l’esistenza di una consistente domanda insoddisfatta di abitazioni a prezzi accessibili per le classi medie di reddito o da prendere in affitto, specialmente nei grandi centri urbani, i costi crescenti della manutenzione che non sono fiscalmente deducibili, le difficoltà di gestire il processo di correzione dei valori catastali da parte della pubblica amministrazione, specialmente a livello comunale, il confronto con l’analoga tassazione dei paesi partner, le limitazioni all’uso della proprietà immobiliare e le pastoie all’operatività degli sfratti, che finiscono con l’irrigidire e impoverire l’offerta sul mercato abitativo, e non da ultimo, il ruolo della ricchezza immobiliare come stimolo e rifugio per il risparmio degli italiani.

Di tutti questi aspetti non vi è traccia nelle considerazioni del governo. Si dirà che il 70% degli italiani abitano nell’abitazione di loro proprietà e che il 92% dispone di proprietà immobiliari, aspetti che potrebbero ridimensionare la necessità di un approccio equilibrato alla tassazione immobiliare. Ma va considerato che quest’ultima non si limita all’imposta sul reddito catastale e all’Imu, che è la principale imposta patrimoniale, perché vanno aggiunte la Tasi, la Tari, le imposte di registro, le ipotecarie, quelle sulle locazioni, e sulle successioni, oltre alle imposte sulle opere di manutenzione. Un conteggio completo non è facilmente disponibile perché varia a seconda dei casi e delle fonti statistiche. Secondo i dati ufficiali (Mef e Istat in particolare) il solo gettito di Imu/Tasi per i Comuni si attesterebbe sui 26 miliardi circa, che corrispondono al 5,5% delle entrate tributarie del 2019. Le altre imposte, che vanno aggiunte, forniscono un gettito più basso.

Nel raffronto con altri paesi, l’Oecd stima che in Italia l’insieme del prelievo ricorrente e non ricorrente sulla proprietà immobiliare abbia raggiunto il 2,45% del Pil nel 2019, un livello superiore alla media dei paesi dell’Oecd (1,86%) e della Germania (1,09%), ma al di sotto di quelli della Francia (4,03%) e del Regno Unito (4,09%). Le disparità di prelievo si spiegano non solo con le differenze nella pressione tributaria complessiva ma con la diversità della sua distribuzione tra i vari redditi e cespiti. Ad esempio, la Francia da parecchi anni insiste sulla tassazione del patrimonio e su varie imposte immobiliari, che insieme alle altre determinano una pressione fiscale superiore a quella italiana. Nel Regno Unito, al contrario, si incide maggiormente sulle proprietà immobiliari, mentre complessivamente la pressione è relativamente più bassa. Analogamente, in Italia la possibilità di aggiungere un nuovo onere sugli immobili andrebbe considerata nel quadro della scelta sulla distribuzione complessiva della pressione fiscale che si intende realizzare, scelta che chiama in causa le altre fonti di entrata.

Un appesantimento della tassazione immobiliare avrebbe probabilmente ripercussioni negative sugli investimenti in abitazioni e di riflesso sull’edilizia abitativa, qualora non si prendessero altre misure per salvaguardare la redditività di questo tipo d’investimento. Ne è conferma per opposto l’esperienza dal 2016 al 2019, quando gli incentivi e la ripresa dei redditi hanno contribuito a ravvivare il settore delle costruzioni dopo quattro anni di continua contrazione produttiva.

Il rilancio dell’edilizia, soprattutto per abitazioni a prezzi ragionevoli in rapporto ai redditi individuali, insieme ad altri interventi su piani urbanistici e mercato degli affitti, è essenziale per superare la crisi abitativa, specialmente nei grandi agglomerati urbani italiani. La crisi degli alloggi ha dimensioni europee, come messo in evidenza dalla recente indagine del Parlamento europeo, che ha chiesto alla Commissione europea e agli stati membri di intervenire specialmente con maggiori investimenti.

Disparità di aggiornamento dei valori catastali possono, inoltre, insorgere all’interno della Pa nell’attuare il complesso processo di rivalutazione degli immobili a causa delle disfunzioni esistenti, particolarmente tra i Comuni, nonché per via delle esenzioni ed agevolazioni. Il metodo stesso che sarà adottato, compresi i parametri di riferimento, ha molta importanza nel distribuire l’onere fiscale tra i proprietari e nel condurre l’operazione in maniera efficiente per limitare i costi amministrativi. Occorre adottare un approccio che operi nel tempo con automatismi per evitare il ripetersi in futuro degli scollamenti crescenti tra valori di catasto e quelli di mercato, scollamenti che in passato sono stati tardivamente superati con aggiornamenti in misura ugualmente proporzionale per tutti. È evidente, infatti, che i prezzi delle abitazioni continueranno a variare nel tempo con l’evolvere dell’economia, degli insediamenti urbani e della domanda, e probabilmente varieranno più rapidamente che nel passato se si porterà a termine il massiccio programma di nuove infrastrutture tracciato nel Pnrr.

Nel compito di valutazione sono di aiuto le migliori prassi di altri Paesi. Ad esempio, negli Stati Uniti, in Florida, l’imposta locale sulle abitazioni, equivalente a Imu, Tasi e Tari, è calcolata annualmente da esperti del settore sulla base del valore medio di mercato per tipologia abitativa sulla base dei valori riportati nei contratti di compravendita stipulati nell’anno precedente nella zona, eliminando dal calcolo quelli derivanti da procedure esecutive per debiti insoluti e quelli massimi e minimi, ed applicando un freno dinamico nelle variazioni annuali sia al rialzo che al ribasso. La nuova valutazione viene sottoposta a una audizione pubblica in cui i cittadini possono presentare le loro osservazioni sul calcolo, che se ritenute rilevanti possono essere recepite prima di definire l’imposta.

Un altro fattore da considerare nell’aggiornamento catastale riguarda le condizioni di contorno che incidono come costi sulla redditività dell’investimento nella proprietà immobiliare. Tra queste hanno rilievo gli altri balzelli, le spese legali, le limitazioni nei diritti di proprietà, le disfunzioni della giustizia nelle procedure esecutive e le spese di manutenzione, assicurazione ed amministrazione condominiale.

Considerati tutti questi aspetti, ben venga l’aggiornamento, ma sia fatto a valori reali di mercato e con efficienza, ben sapendo che la rivalutazione condurrà per sé stessa a soddisfare l’esigenza di “ridistribuzione”. Al tempo stesso si avanzi verso un ribilanciamento degli altri prelievi sulla proprietà immobiliare, altrimenti si tratterà soltanto di un’operazione di aumento di carico fiscale per generare maggiore gettito. In questo caso le ricadute sarebbero disincentivanti sugli investimenti in abitazioni, sull’edilizia e sul risparmio degli italiani.



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