L’Italia ha mille e più ragioni per non seguire la Francia nello scontro con gli Stati Uniti per la vicenda Aukus. Dietro le polemiche, i francesi sono pronti a rilanciare e proveranno a incassare su altri fronti. Draghi (e l’industria italiana) non ha nulla da guadagnare dalla crociata d’Oltralpe. Ma può dare una mano decisiva a Joe Biden. Ecco come
Meglio tenere i nervi saldi. Seguire la Francia nella crociata contro Aukus, il patto militare in chiave anti-cinese fra Stati Uniti, Australia e Regno Unito nell’Indo-Pacifico, può rivelarsi un boomerang per l’Italia.
Ci sono due versioni di questa storia al centro di un putiferio diplomatico che ha portato Emmanuel Macron a richiamare gli ambasciatori a Washington e Canberra. La prima racconta la delusione di Francia e Ue per l’assenza di consultazioni degli Stati Uniti con gli alleati europei, come con il ritiro dall’Afghanistan, per una scelta che avrà un enorme impatto strategico. La seconda con l’Ue, la Nato e l’Italia non c’entra nulla e riguarda una partita industriale tutta francese.
Come è ormai noto, l’Eliseo è furibondo con il governo australiano perché Aukus affonda una gara da 31 miliardi di euro, vinta dalla Francia nel 2016, per fornire all’Australia 12 sottomarini Shortfin Barracuda Block 1A. Sommergibili ad alimentazione diesel, dunque meno tecnologici e molto meno temibili della partita di sottomarini a propulsione nucleare al centro dell’alleanza Aukus con cui Biden vuole mettere paura alla Cina nell’Indo-Pacifico.
Quel che Macron non racconta è che quella gara vinta cinque anni fa stava già affondando da sola. Come testimoniato da anni da decine di giornali locali australiani, il patto fra Parigi e Canberra aveva mostrato tutte le sue crepe. Tabella di marcia in grave ritardo, costi impennati (da 31 a 56 miliardi di euro), promesse disattese. Su tutte, quella di mettere in piedi in Australia una vera e propria industria nazionale a partire dai cantieri di Adelaide, nel Sud. Un dettaglio chiave che contribuì all’aggiudicazione della gara, cinque anni fa, da parte del colosso francese Naval Group.
Le cose sono andate diversamente: se le stime iniziali di Parigi prevedevano un input locale del 90% e 2800 posti di lavoro, nel 2020 sono state riviste a ribasso, 60%. Da parte australiana la pazienza era ormai arrivata al limite. Se c’è stata una “coltellata” ai francesi, più che “alle spalle”, come ha ruggito il ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian, è stata in pieno volto.
Pensare che la partita industriale per Parigi si chiuda qui, però, sarebbe un grave errore. Dietro gli strali lanciati dai francesi contro Nato e Usa, qualcosa inizia a muoversi. E non è detto che dall’incidente non nasca una chance per i cantieri d’Oltralpe.
Anzitutto, il patto Aukus non ha ancora chiuso la partita australiana. Diciotto mesi di consultazioni, anni per assemblare e spedire i sottomarini anglosassoni. I tempi per la consegna sono lunghi. Forse troppo per un’Australia che si ritrova ora a dover fare i conti con una Cina infuriata e dotata di 12 sottomarini a propulsione nucleare, senza contare quelli in costruzione. Ecco che allora la Francia potrebbe inserirsi con una commessa intermedia e riempire il vuoto. Mezzi disponibili da subito, in attesa dei più avanzati sottomarini targati Aukus.
Anche verso gli Stati Uniti i francesi , fra una protesta e l’altra, cercheranno di riscattare un “debito”, pronti a rilanciare. Lo smacco di Aukus in mondovisione permette a Parigi di fare rivendicazioni impensabili nel caso di un’esclusione (come in effetti è stato) dovuta a sole ragioni di mercato.
Le occasioni per rilanciare, e contrattare, non mancano di certo. Non solo durante il G20 e la prossima Assemblea generale dell’Onu, due forum dove di certo il patto indo-pacifico sarà convitato di pietra. A fine mese, il 29 settembre, si apriranno i lavori del Trade and Technology Council (Ttc) di Ue e Usa, l’organo che detterà le regole del gioco fra alleati transatlantici, dai brevetti al controllo delle Big Tech. Dunque, non meno importante, c’è la definizione dell’Accordo di libero scambio Ue-Australia. Dopo tre anni di faticosi negoziati, i francesi vogliono far saltare il tavolo e convincere l’Ue a fare altrettanto.
Infine, si apriranno a breve le consultazioni per dar vita a un primo nucleo della Difesa comune europea. Un’altra partita industriale con un grande punto interrogativo: le aziende americane parteciperanno? E se sì, quante e quali? L’Italia ha già aperto, la Francia tentenna e vuole porre condizioni.
Qui si torna al dubbio iniziale: come dovrebbe muoversi l’Italia? Non è un mistero che una parte della politica nostrana parli meglio il francese dell’italiano. E infatti c’è chi ha già iniziato a muoversi per trascinare il governo in un tiro alla fune con gli Stati Uniti di cui non si intravedono i benefici, i danni invece sì.
Chi conosce l’industria navale italiana sa come la bilancia degli affari penda molto più verso Washington che in direzione delle Alpi. Basti pensare al ruolo da protagonista di Fincantieri insieme a Lockheed Martin nella cantieristica navale americana, con l’ultima commessa vinta un anno fa per il programma delle Fregate veloci (FFGx), 795 milioni di dollari.
La Francia fa di tutto per “europeizzare” una vicenda politica e industriale, quella innescata da Aukus, che invece è sempre stata bilaterale. Privatizzare gli utili, socializzare le perdite: una specialità di cui a suo tempo veniva accusato dai francesi l’Avvocato Gianni Agnelli è diventata negli anni un modus operandi anche a Parigi.
A questo punto Draghi si trova a un bivio. Con il vuoto diplomatico lasciato dall’uscita di scena di Angela Merkel, oggi la parola dell’Italia pesa il doppio. Due opzioni. Schierarsi apertamente con la Francia, con il rischio (concreto) di finire “cornuta e mazziata”, mentre i francesi incassano (da soli) il risultato della trattativa. Oppure offrire una sponda a Biden, ora più che mai necessaria all’inquilino della Casa Bianca. Delle due l’una.