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Fenomenologia di un (Beppe) Grillo parlante

È più democratico di Piero Fassino e Francesco Rutelli, più ambientalista di Alfonso Pecoraro Scanio, più giustizialista di Antonio Di Pietro, più liberale di Francesco Giavazzi, più pacifista di Gino Strada, più radicale di Marco Pannella, più nero di Obama e più bianco di Hillary, più a destra di Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini messi insieme e più a sinistra di Fausto Bertinotti. Oltre ad essere più comico di Dario Fo, più epurato di Enzo Biagi, più incazzato di Mike Tyson, più televisivo di Pippo Baudo, forse più radiofonico di Fiorello e – se non ci fossero intralci accademico barra burocratici sulla sua strada – sarebbe financo più oncologo di Umberto Veronesi.
 
Ma cosa succederebbe, nell’italico e perennemente aperto cantiere politico, se il democratico, ambientalista, giustizialista, liberale, pacifista, radicale, nero, bianco, destro, sinistro, comico, epurato, incazzato, televisivo e radiofonico Beppe Grillo decidesse di far qualcosa di poco antipolitico tipo “scendere in campo”? Saccheggerebbe terreno elettorale a centro, destra e manca? Oppure si limiterebbe a svanire in una “bolla” come le speranze di quella new economy che doveva mangiarsi il mondo e forse anche di più? L’interrogativo vale soprattutto all’interno di quell’Unione in cui c’è chi muore (Ds e Margherita) per reincarnarsi (Partito democratico) lasciando spazio a sinistra (costituente rosso-socialista e cantiere rosso-e-basta) mentre c’è chi sta fermo e chi si agita in continuazione, il che fa un po’ lo stesso.
 
Quello che dovrebbe essere un segnale d’allarme non è originato dalla fluidità politica (soprattutto partitica) che attraversa il centrosinistra e tutti i suoi cantieri aperti. Il problema è che l’indice di disaffezione e sfiducia nei confronti dei politici (i sondaggi varranno anche poco ma non ce n’è uno che non registri il fenomeno) non accenna ad avere flessioni. Di più: non è tanto la questione di una politica che non offre risposte alla gente; è la gente che non le pone più domande e non ripone in essa speranze e bisogni.
L’assenza o latitanza di una politica che preferisce litigare sulla data di nascita del Partito democratico (è meglio tener fede all’anniversario delle primarie del 16 ottobre 2005 anche se è martedì, oppure ripiegare su una domenica?) o sul numero di teste da cui dovrà essere composto il coordinamento operativo della fase costituente, produce fenomeni di cui la sinistra ha già sperimentato gli effetti collaterali. Nel 1994, all’indomani di Tangentopoli, i Progressisti guidati da Achille Occhetto provarono sulla propria pelle quanto era in grado di far male la bestia dell’antipolitica. Di Silvio Berlusconi, però, ce n’era e ce n’è uno solo. E – pur somigliando molto al tale che ne sa sempre una più del diavolo – sembra aver esaurito la sua spinta propulsiva (espressione molto in voga qualche annetto fa).
Oggi c’è Grillo, pifferaio più o meno magico, che agisce indisturbato nell’indifferenza di tutti i caporali, capomastri, mastri e apprendisti impegnati nei cantieri della sinistra.
 
Di sicuro c’è che Beppe Grillo ha seguito e popolo, ma non si è mai capito bene se ha i voti, l’unica cosa che veramente conta. Il fenomeno è di difficile lettura, a meno di non voler dar conto alla versione che lui stesso diede nel 2005 quando, parlando con l’Espresso, sgomberò il campo da tutte le voci che lo davano in corsa alle primarie per la scelta l’elezione del candidato premier dell’Unione. “No, alle primarie non mi candido perché vincerei io”, disse prima di aggiungere, a mo’ di nota esplicativa : “E poi io sono per la dittatura, tanto con la vostra democrazia non andiamo da nessuna parte”.
Il fatto che non si sia mai candidato non vuol dire che non lo è mai stato, un candidato. Sempre nel 2005, quel gruppo di verdi-pacifisti-equo-solidali uniti sotto le insegne della Rete Lilliput lo propose per la direzione generale del World trade organization. “Questa provocazione della mia nomina – commentò Grillo – serve anche per parlare un po’ della Wto: nessuno ne sa molto, fanno documenti di ventisettemila pagine solo per dire che il commercio è libero”.
 
Eccezion fatta, con mille condizionali, per quella volta che l’idea di usare l’olio di colza come carburante gli valse la pubblicazione su alcune riviste scientifiche, Beppe Grillo, esperto nel diagnosticare i malanni, è sempre scivolato nella fase della cura. Un esempio? Da possessore di una manciata di azioni della Telecom, ha arringato la folla di piccoli azionisti durante l’ultima, travagliata, assemblea dei soci andata in scena a metà aprile in quel di Rozzano. “Faccio un appello alla dignità della dirigenza: di-met-te-te-vi” disse all’indirizzo di quelli che catalogò alla voce “presunti manager con le pezze al culo che hanno indebitato l’azienda con l’aiuto delle banche e nella totale assenza della Consob e dello Stato per fare esclusivamente i loro interessi”. Com’è finita? Quando le (per lui) famigerate “banche” hanno preso il posto di Tronchetti Provera, nessuno l’ha più visto. Né sentito. Così Mina, tigre di Cremona, sulla Stampa di Torino, in un commento intitolato “Rifocilliamo il nostro Grillo”: “Ho solo paura che, come Forrest Gump dopo aver corso per migliaia di chilometri con un seguito che ogni giorno sembrava ingrossarsi con progressione geometrica, si fermi, si volti e dica: ‘Sono un po’ stanchino’ ”.
 
Il rebus sull’effettiva consistenza politica ed elettorale di Beppe Grillo è tutto in una domanda: esiste veramente dietro il Forrest Gump della Liguria un seguito che si ingrossa progressivamente? Di certo ci sono le matrici dei biglietti dei suoi spettacoli a teatro, che finiscono sempre, sistematicamente, sold out in un batter d’occhio, con un ritmo che in Italia regge soltanto Vasco Rossi. Altrettanto certi sono i numeri del suo beppegrillo.it, in cima ai ranking del www nostrano con una media di 150-200mila contatti al giorno. Tutti con lui, tutti amici. “Sto mettendo su una piccola P2 sobria. Una setta”, fece sapere lui, il guru, spiegando che non si tratta di un movimento politico ma di “un virus che si espande dal basso e taglia fuori i mezzi di comunicazione”. E ancora: “Io li chiamo gli aggrillati. Ma non sono i popolo di Grillo: sono loro che diventano me. Diventano Grillo e fanno qualcosa di pazzesco. Che so, si incatenano alla Telecom, oppure vanno a cena insieme e parlano di idrogeno, dematerializzazione, sostenibilità.
 
Finora non li ho mai visti, ma andrò a qualche riunione. Voglio vedere se mi piacciono anche fisicamente” (da un’intervista all’Espresso del 25 agosto 2005).
Due anni fa, il Time lo ha consacrato nel pantheon degli eroi europei dell’informazione. “Avrebbe forse dovuto fare il revisore dei conti statali piuttosto che il comico: Grillo è uno di quei rari buffoni che in classe, oltre a far ridere, riesce a fare i compiti con cura”, annotò all’epoca il settimanale.
Ma Grillo era e resta un predicatore. Non a caso parte quasi sempre dal “voglio” e solo in qualche caso dal “vorrei”. Cosa vuole? “Rompere l’incantesimo nel quale viviamo”, “licenziare indifferentemente tutti i politici”, “rimettere le cose a posto”, magari dando “il codice digitale e una e-mail” a tutti, sin dalla nascita. “Ecco una campagna di cui si dovrebbe far portavoce la sinistra”, suggerì.
 
Ricorda molto quell’intrattenitore televisivo interpretato da Robin Williams nel film L’uomo dell’anno, Beppe Grillo. Quello che massacra i politici nel corso del suo talk show quotidiano finché non decide di candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti, vincendo le elezioni alla testa di un grande movimento popolare (ma solo grazie a un errore di calcolo del software installato da una potente società). La politica è nel supermercato, sostiene Grillo. “Ce l’abbiamo nel carrello, è lì che andiamo a votare tutte le mattine”. Vent’anni fa fece una pubblicità. “Ma poi – si legge nel suo best of Tutto il Grillo che conta, uscito l’anno scorso per Feltrinelli – ho capito alcune cose sulla pubblicità. Quindici anni fa me la prendevo con i politici. Ma poi ho capito alcune cose sull’economia. Dieci anni fa finivo i miei spettacoli sfasciando un computer a mazzate. Ma poi ho capito alcune cose sul computer e su internet. Oggi la pubblicità sembra uno dei mali peggiori, l’economia la vera padrona della politica, internet uno dei pochi spiragli per difendersi e per ridare alla politica lo spazio che l’economia le ha rubato”. Sembra l’ammissione di tanti macro errori, ma in realtà – dietro il messaggio – si nasconde un interrogativo.
 
Cosa capirà, di nuovo, Beppe Grillo domani? E i suoi, i non quantificati “aggrillati“, lo seguiranno come il pifferaio magico? Farà politica attiva? La verità è che, forse, il comico genovese non è un produttore di opinioni. Ma un prodotto. Non è Beppe Grillo, ma beppegrillo con l’aggiunta del suffisso puntoit. Un brand che si nutre di un tam tam, che vola sul web e si materializza in teatri stracolmi di gente sudata per la ressa in biglietteria. Non è radicato sul territorio perché non ha radici e nemmeno territori. Forse può effettivamente coprire uno spazio politico sparigliando l’esistente. Probabilmente, per farlo, avrebbe bisogno delle garanzie che soltanto un proporzionale con uno sbarramento basso possono fornirgli. Tutto questo può essere vero, così come il suo contrario. Di certo c’è solo che l’opzione antipolitica di cui Grillo è una delle attuali bandiere rappresenta un pericolo per tutti. Soprattutto per quel centrosinistra distratto perché in tutt’altre faccende affaccendato.
 
D’altronde il grillo (s)parlante ha una risposta per tutto e tutti. E, quando sembra non avercela, si rifugia nella scelta più pop: spararla più grossa di tutti. Ricordate la polemica sul primo maggio, quella del conduttore della kermesse di piazza san Giovanni a cui l’Osservatore romano diede del “terrorista”? “Il problema non è la Chiesa, ma sono i nostri cari dipendenti”, si leggeva nel blog di Grillo. “Montecitorio è una sede distaccata della Segreteria di Stato del Vaticano? Risolviamo alla radice questo problema. Ritorniamo al Papa Re, a una sana teocrazia. Le cose funzioneranno meglio in Italia. Dovremo subire qualche piccola conseguenza come la chiusura delle fabbriche di preservativi e qualche piccolo fuoco in Campo de’ Fiori per i ragazzacci come Rivera. Ma non si può volere tutto: evolvere, essere seppelliti, essere governati da dipendenti laici”. “W il Papa Re d’Italia”, concluse poi, prima di dedicarsi ad altro affaire.
 
 
Formiche, giugno 2007


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