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Per il “Draghi forever” manca un ingrediente (non) segreto

Ora che Bonomi ha lanciato Draghi oltre il 2023, bisogna chiedersi: con quale maggioranza può restare a Palazzo Chigi? Quale formula può fare da basamento per la prosecuzione della sua azione? Gli scenari dei prossimi due anni nel mosaico di Fusi

«O Dio, Dio! Tutta l’Italia mi pare un pollaio. Non si sente gridar che Pio, Pio». Il corrosivo sarcasmo di Giuseppe Gioachino Belli salutava così l’elezione a Papa il 16 giugno 1846 del cardinal Mastai-Ferretti, Pontefice “liberale” presto trasformatosi in conservatore. Evitando di forzare paragoni storici del tutto impropri, tuttavia qualcosa del genere sta succedendo con Mario Draghi, peraltro privo di un Belli lì a ironizzare.

L’assemblea della Confindustria di giovedì scorso ha tributato una trionfante standing ovation al capo del governo e il presidente Carlo Bonomi lo ha inchiodato a palazzo Chigi sottoscrivendo per lui un contratto a tempo indeterminato. Ne è nato un fuoco d’artificio di discussione tra i partiti ovviamente divisi tra favorevoli e contrari, ma che ha scoperchiato l’inedita (o quasi…) suggestione di un fermo immagine che consenta all’attuale alchimia di governo di proseguire il suo percorso anche dopo le elezioni del 2023, superando d’un balzo – ma lungi dall’aver individuato una soluzione praticabile – le forche caudine dell’elezione del nuovo capo dello Stato.

Il viatico di Bonomi può senz’altro lusingare il presidente del Consiglio visto che Pio IX, l’ultimo Papa dello Stato pontificio, governò la bellezza di 31 anni, sette mesi e 23 giorni: il più lungo pontificato della storia della Chiesa cattolica.

Altri tempi, altro mondo. Neanche il più accanito fan di SuperMario può immaginare un arco temporale così vasto nella guida dell’esecutivo: ci si ferma alla prossima legislatura più gli scampoli di quella attuale; il tempo, diciamo, per completare l’attuazione del Recovery Plan che ha vigenza fino al 2026.

Una suggestione, appunto. Che però mette in un fuorviante angoletto la linfa che dovrebbe animare la parabola governativa dell’ex presidente Bce: la politica. E’ quella l’architrave che manca, il pilastro senza il quale ogni ipotesi, anche la più ardua, diventa inconcludente vagheggiamento con l’aggravante di porsi fuori dal perimetro costituzionale.

Già perché per poter rimanere in carica, poco o tanto che sia, un esecutivo deve avere la fiducia del Parlamento previo accordo tra i partiti disposti a fare maggioranza. Ecco, il punto è proprio questo: con quale maggioranza Draghi può restare a Palazzo Chigi a completare l’opera che ha intrapreso nel febbraio scorso? Quale intesa tra forze politiche, quale formula politica può fare da basamento per la prosecuzione della sua azione?

Una domanda alla quale Bonomi non risponde (non è di sua competenza) ma che invece è decisiva per i partiti. Com’è noto, Draghi ha ricevuto l’incarico da Sergio Mattarella senza alcuna contrattazione preventiva tra le forze politiche, anzi bypassandole per manifesta incapacità di trovare una soluzione al collasso del Conte II. Fu una scelta al contempo necessitata e d’emergenza. Adesso si tratterebbe di rovesciare il quadro trasformando l’emergenza – la quale naturalmente non può durare all’infinito e neppure il tempo di una intera legislatura – da fattore determinante a portare alla formazione di una maggioranza spuria ed eterogenea di “larghe intese” dalla Lega al M5S passando per il Pd e Renzi, in un amalgama politico strutturato e coeso. Disposta a seguire un Timoniere ed una rotta da lui decisa, piegandosi ai suoi voleri, limitandosi a supportare e ad ubbidir tacendo o giù di lì.

Quanto sia praticabile una simile prospettiva lo lasciamo al giudizio dei lettori. Il centrodestra dovrebbe continuare a rimanere diviso, un pezzo insieme al premier e l’altro pezzo contro; il M5S dovrebbe continuare a governare con Salvini o in subordine stringere un’alleanza non più episodica con Forza Italia; il Pd dovrebbe superare ogni incertezza sull’agenda Draghi, farla propria in maniera definitiva, e anch’esso continuare a governare con Salvini oppure cercando un’intesa “Ursula” dopo le urne, staccando Berlusconi da Matteo. La credibilità di un simile percorso è quanto meno dubbia, senza contare che Draghi ha accettato di governare con l’unità nazionale che si è prodotta: chissà se accetterebbe di continuare a farlo con solo uno spezzone di essa.

Già arrivare a fine legislatura nelle attuali condizioni è non poco complicato: le divaricazioni delle ultime settimane in vista del voto amministrativo diventano niente se paragonate alle inevitabili fibrillazioni di un anno pre-elettorale. E poi dopo essersi scontrate in vista delle urne, i partiti dovrebbero gettare olio sui marosi e avviare una bonaccia pluriennale. L’alternativa è spedire SuperMario al Quirinale, cosa che aprirebbe una voragine sul piano governativo mandando di traverso il caffè a Confindustria; oppure lasciare sul Colle Mattarella, eventualità che l’attuale Presidente ha escluso e continua a fare.

Come se ne esce? Nessuno lo sa. Ma senza la politica, la fatica della politica, qualunque soluzione è inimmaginabile e di consistenza chimerica. La politica, da tanti negletta, è al contrario l’ingrediente essenziale che in tutti questi disegni manca. Ma senza la quale ogni torta è destinata a sgonfiarsi.

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