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Indo (poco) Pacifico. Il generale Jean spiega perché l’Europa non può tirarsi indietro

L’Ue potrà influire economicamente e tecnologicamente, in particolare concorrendo allo sviluppo delle enormi potenzialità economiche e anche militari dell’India. L’analisi del generale Carlo Jean

Con la presidenza Biden, gli europei speravano che i rapporti con Washington fossero tornati quelli di prima. Che cioè gli Stati Uniti li considerassero alleati indispensabili non solo in Europa e nelle sue periferie, ma nell’intero mondo. Scambiavano le loro speranze per realtà. L’opinione pubblica d’oltre Atlantico è divenuta scettica dell’Europa e della Nato. Non accetta più che gli Stati Uniti continuino a essere generosi “lord protettori” dell’Europa, tollerandone inefficienze, bizze, “giri di valzer” specie con Mosca e Pechino e critiche e contrasti alla politica americana nel mondo.

L’errore di sopravvalutazione dell’importanza europea è dimostrato tra l’altro dall’accordo sugli investimenti (Cai) concluso dall’Unione europea con la Cina subito dopo l’elezione di Joe Biden. È stato quasi un insulto e una sfida agli Stati Uniti, come lo era stato il Memorandum d’intesa sulla Via della Seta firmato insipientemente (è un eufemismo!) dall’Italia. Anche se è stato bloccato – ma non annullato – il Cai è stato considerato uno schiaffo al nuovo presidente, che pur stava annullando talune delle decisioni più dure di Donald Trump nei confronti dell’Europa, quale le sanzioni per il Nord Stream 2.

Pur mascherate da buone parole e da dichiarazioni di perenne amicizia, le reazioni statunitensi non si sono fatte attendere. Il ritiro dall’Afghanistan, che aveva ottenuto quando era stato annunciato l’applauso degli europei, è stato gestito unilateralmente dagli Stati Uniti. Il 15 settembre sono state dichiarate l’alleanza Aukus, che esclude l’Europa dall’“anglosfera” dell’Indo-Pacifico, e la sostituzione dell’acquisto da parte dell’Australia di dodici sommergibili diesel francesi con otto nucleari americani, unita al transfer di cruise e di tecnologie avanzate.

La reazione francese è stata melodrammatica, quasi isterica. Quella dell’Unioen europea imbarazzata, anche perché molti Stati membri ridacchiavano per l’umiliazione subita da Parigi. Emmanuel Macron ha approfittato delle divisioni europee per rispedire l’ambasciatore a Washington, prima che il dramma divenisse commedia. Ha preso spunto dall’Afghanistan e dai sottomarini per insistere sull’autonomia strategica e sulla necessità di una sicurezza paneuropea distaccando Mosca da Pechino. È più che comprensibile la frustrazione della Francia di vedersi sfuggire una ricca commessa – per inciso era già capitato a noi quando Parigi aveva fatto fallire l’affare Fincantieri-Stx – e soprattutto di non essere considerata una potenza dell’Indo-Pacifico, regione in cui ha 7.000 soldati e più di 2 milioni di cittadini francesi. Ma si capiscono anche gli Stati Uniti che vogliono alleati pronti a reagire e non a porre bastoni fra le ruote.

La questione ha assunto aspetti decisamente comici, con l’andata e rapido ritorno dell’ambasciatore francese a Washington e la solidarietà con Parigi dichiarata con un mezzo sorriso da molti membri dell’Unione europea. Biden ha offerto telefonicamente rami di olivo e si è prodigato in scuse per non aver coinvolto Parigi nei suoi accordi con Australia e Regno Unito, quest’ultimo definito da Parigi “ruota di scorta” dell’accordo. Le forme sono state più o meno salvate. La “furia francese” si è attenuata. La realtà è però rimasta tale e quale. Non si è parlato di compensazioni. Si sono fatte solo chiacchiere, che certamente celano sarcasmo se non “sfottò”.

A parte questi aspetti folcloristici, meno approfonditi sono stati due punti, a parer mio, molto più importanti della “saga” dei sottomarini e dell’umiliazione subita dalla Francia. Primo: se sia proprio l’Unione europea a non doversi fidare degli Stati Uniti, oppure se non siano questi ultimi a non potersi fidare dell’Unione europea. La questione è strettamente legata da un lato all’importanza che gli Stati Uniti danno all’Europa, nei vari teatri operativi, e dall’altro alla portata e ai limiti dell’“autonomia strategica“ dell’Europa nel mondo post-americano. Secondo: che cosa sia mutato nel post Afghanistan, nel post Covid-19, nel post Aukus e dopo la riunione del Quad (Stati Uniti, Giappone, Australia e India) a Washington di venerdì 24 settembre. In pratica, si tratta di riflettere sui propri possibili ruoli e interessi nella nuova geopolitica dell’Indo-Pacifico e, più in generale, sulle caratteristiche della “nuova guerra fredda” o “ pace calda” o “rivalità strategica”, che dir si voglia, fra gli Stati Uniti e la Cina. Proprio nell’Indo-Pacifico quest’ultima ha il suo centro politico, economico, tecnologico, infrastrutturale e anche militare.

Per il primo punto è presto detto. Biden è favorevole all’“autonomia strategica” dell’Europa, ma limitata al territorio Nato e alle sue periferie, dall’Africa al Medio Oriente. Essa andrebbe comunque coordinata con la Nato e con la deterrenza nucleare americana nei confronti della Russia. Non vuole però che i litigiosi europei gli si mettano fra i piedi nell’Indo-Pacifico. Non dispongono di capacitò militari interessanti. Le loro divisioni e gli interessi commerciali con la Cina impedirebbero di usarle. In sostanza, combinerebbero solo guai. Beninteso Biden vorrebbe che gli europei fossero fedeli alleati degli Stati Uniti nel loro confronto con la Cina, limitando i commerci e la cessione di infrastrutture e di tecnologie avanzate, specie di quelle duali.

Per il secondo aspetto, le cose sono più complesse. Non è ipotizzabile che nell’Indo-Pacifico possa crearsi un’alleanza analoga alla Nato, con una difesa e una deterrenza comuni, come quelle previste dall’articolo 5 del Trattato del Nord Atlantico. Troppo diversi sono gli interessi di sicurezza e quelli economici con la Cina, oltre che le culture strategiche e le capacità militari. L’India, elemento centrale di qualsiasi accordo, è contraria a ogni alleanza militare. Vuole mantenere un equilibrio fra gli Stati Uniti e la Russia, sua principale fornitrice di armamenti, sebbene i tradizionali legami con Mosca siano stati allentati dall’aumento della cooperazione fra Mosca e Pechino, alleato sempre più stretto del Pakistan dopo il successo dei Talebani in Afghanistan.

Le differenze del confronto fra gli Stati Uniti e la Cina rispetto alla guerra fredda con l’Unione Sovietica sono sostanziali. Coinvolgono profondamente i rapporti degli Stati Uniti con i loro alleati sia europei che asiatici. Le differenze fra mondo libero e blocco sovietico erano politiche e militari. Esisteva una cortina di ferro. La competizione economica e tecnologica non conosce barriere. La solidità dei blocchi era garantita dal fatto che i loro rapporti economici erano ridottissimi. Ciò non vale nell’economia globalizzata. Nei riguardi dell’Unione Sovietica non esisteva contrapposizione fra sicurezza ed economia. Gli Stati Uniti dominavano l’intero settore delle tecnologie critiche e disponevano di strumenti idonei a imporre agli alleati il rispetto degli embarghi con sanzioni extraterritoriali. Sin dal 1948 si sapeva che l’efficienza del libero mercato avrebbe consentito all’Occidente di prevalere prima o poi su un sistema basato sul capitalismo di Stato. Gli europei erano importanti perché erano in prima linea e costituivano il principale teatro di scontro.

Nella “nuova guerra fredda” gli europei sono lontani fisicamente, ma non economicamente dal principale teatro di confronto. Inoltre, la situazione generale è molto diversa dalla precedente. La Cina è un gigante economico e tecnologico, in rapida crescita. Non crollerà come l’Unione Sovietica. Gli Stati Uniti hanno vista attenuato la loro superiorità economica (ma non quella finanziaria) anche rispetto agli alleati; lottano per mantenere quella tecnologica; conservano solo la superiorità militare, che consolidano con alleati di cui possono fidarsi completamente, come per l’appunto il Regno Unito e l’Australia.

L’avvicinamento all’India costituisce la loro “mossa del cavallo”. Quello con Mosca – creando il “triangolo di Kissinger” rovesciato – auspicato da Macron sull’Economist per ovviare a quella che ha chiamato la “morte cerebrale della Nato” appare una fantasia “gallica”. Il pericolo dell’infiltrazione islamista in Asia Centrale, sommandosi alla già esistente dipendenza economica di Mosca da Pechino, rafforza i legami russo-cinesi.

Non essendo praticabile un’alleanza formale onnicomprensiva, gli Stati Uniti stanno perseguendo nell’Indo-Pacifico una serie di accordi multilaterali e bilaterali per frenare l’altrimenti irresistibile espansione dell’influenza economica e infrastrutturale e potenzialmente militare della Cina. La presidenza Trump ha danneggiato l’influenza degli Stati Uniti nell’area. Ritirandosi dai negoziati sulla Tpp, ha lasciato spazio alla Cina che ne ha subito approfittato per finalizzare due accordi regionali: il Recep (Regional comprehensive economic partnership) con Stati asiatici, e soprattutto il Cptpp (Comprehensive and progressive Trans Pacific partnership), accordo di libero scambio transpacifico. Di entrambi non fanno parte né Stati Uniti né India. È naturale il rafforzamento dei loro rapporti, anche tramite i buoni uffici del Giappone.

Con la caduta dell’Afghanistan nelle mani dei Talebani, sostenuti dal Pakistan, sta aumentando d’importanza l’accordo Quad (India, Giappone, Australia e Stati Uniti). Esso ha subito una lenta evoluzione tuttora in corso, anche se non si trasformerà in vera e propria alleanza strategica. È nato con le intese fra l’India e il Giappone per l’armonizzazione negli anni Novanta delle rispettive politiche “Look East” e “Free and open Indo-Pacific”. Ha avuto un ruolo importante nei soccorsi per il tremendo tsunami del 2004. È stato “resuscitato” temporaneamente per un’esercitazione navale nel Golfo del Bengala nel 2007, e definitivamente nel 2017. Ha tenuto il 24 settembre 2021 il suo primo summit a Washington, in cui ne sono stati precisati finalità e obiettivi. Il collante dell’accordo è rappresentato dall’aggressivo espansionismo cinese, ma le intese riguardano solo marginalmente la sicurezza. Si riferiscono in primo luogo alle infrastrutture, in chiara competizione con la Via della Seta cinese, all’energia, ai vaccini, al trasferimento di tecnologie, anche strategiche, al supporto logistico e così via. Nella riunione di Washington, non si è trattato del modo con cui il Quad verrà coordinato con l’Aukus né con i numerosi accordi fra i suoi membri con i Paesi di una regione che sta diventando sempre più critica per gli equilibri mondiali.

Se l’Unione europea non vuole trasformarsi in una “Grande Svizzera” o in una “Fortezza”, esclusa dal “gioco delle grandi potenze” che sta rimodellando l’ordine mondiale, dovrebbe interessarsi alla regione con maggiore incisività e realismo. Non è escluso che accerti la sua impotenza ad agire in essa militarmente e che decida di concentrarsi sulle sue periferie. Soprattutto nel Sahel che presenta aspetti di rischio se non di diretta minaccia.

L’Unione europea potrà però influire sull’Indo-Pacifico economicamente e tecnologicamente, in particolare concorrendo allo sviluppo delle enormi potenzialità economiche e anche militari dell’India. Di certo non può continuare a sperare che gli Stati Uniti le tolgano “le castagne dal fuoco”. Avrà bisogno del loro supporto. Non sarà gratuito. Se lo dovrà guadagnare. Sarebbe necessario pensarci per tempo, ma senza molti “voli pindarici” e senza pensare di aver risolto il problema con l’invio di qualche nave nell’Oceano Indiano e nel Mar Cinese meridionale.



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