Rimbalzo o non rimbalzo, l’Italia sta recuperando. Non del tutto, poiché la caduta nel 2020 è stata ben più forte della media dell’Eurozona. Per tornare al punto di partenza ci vorrà qualche mese in più. Ma l’importante è non tornare sulle orme del governo Monti…
Se le previsioni della Nadef (Nota di aggiornamento al Def) troveranno conferma, non sarà stato un semplice rimbalzo. Termine finora usato quasi ad indicare un riflesso meccanico. Il Pil cade in un anno, per poi ritornare, nemmeno si trattasse di uno yo-yo, a riconquistare la vecchia posizione. Nulla di male, per carità. Nel 2009 era più o meno successo questo. Allora il Pil era caduto di oltre 5 punti per poi rimbalzare l’anno successivo, come una pallina da tennis, e tornare al punto di partenza. Questa volta, tuttavia, quel termine si è anche caricato di significati politici, quasi a voler dimostrare la scarsa produttività dell’azione di governo. Questa o quella per me pari sono: cantava il Duca di Mantova nel Rigoletto. Quindi Conte o Draghi, in questo caso, non farebbero differenza.
Rimarranno delusi se solo si prenderanno la briga di analizzare meglio le cifre. Quella crescita del 6 per cento porta l’asticella dell’economia italiana, per la prima volta in dieci anni, a superare il tasso di crescita dell’Eurozona, che la Bce, solo qualche giorno fa, aveva stimato nel 5 per cento. Mentre subito dopo Standard&Poor’s ne confermava la sostanza indicando nel 5,1 per cento il tasso di sviluppo relativo. C’è subito da dire che negli anni successivi non sarà facile mantenere le stesse posizioni. Anche se il ministro dell’economia, Daniele Franco, ha già fatto capire che le previsioni del governo mantengono un pizzico di pessimismo scaramantico. Nel 2022, secondo le previsioni, l’Italia dovrebbe avere un tasso di crescita del 4,2 per cento. L’Eurozona del 4,5 per cento.
Si può quindi dire che rimbalzo o non rimbalzo, l’Italia sta recuperando. Non del tutto, poiché la caduta nel 2020 è stata ben più forte, 8,9 contro il 7,1 per cento, della media dell’Eurozona. E quindi tornare al punto di partenza ci vorrà qualche mese in più. Ma l’importante era non seguire le orme del governo Monti, quando alla brusca caduta del 2009 seguì quella del 2012 che portò al totale disallineamento del ciclo italiano da quello europeo. Con quali conseguenze, anche ai fini della crescita del rapporto debito – Pil, è stato fin troppo facile vedere.
Ed invece, questa volta, grazie ad un più elevato tasso di crescita ed all’esaurirsi della spinta deflattiva, anche gli assetti di finanza pubblica mostrano meno elementi di preoccupazione. Cominciamo, allora, dal Pil, nel suo valore nominale, che tiene appunto conto dell’andamento dei prezzi.
Lo scorso anno era diminuito, a causa di un’inflazione più contenuta, del 7,9 per cento. Nel 2021 dovrebbe, invece, crescere del 7,6: un 6 per cento in termini reali più l’1,6 di maggiore inflazione. Il confronto tra le cifre mostra pertanto una sorta di recupero quasi completo.
Altro dato sorprendente il buon andamento delle entrate che sono aumentate del 2,8 per cento del Pil. Quasi 47 miliardi di euro, rispetto all’anno precedente, in cui la parte del leone la fanno le imposte: quelle dirette in aumento di quasi il 4 per cento, le indirette addirittura del 10,5. In sofferenza, invece, i contributi sociali, che crescono quasi esclusivamente per effetto dell’inflazione (1,8 per cento), a causa dell’aumento del tasso di disoccupazione dal 9,3 al 9,6 per cento della forza lavoro.
Nonostante ciò la pressione fiscale si riduce dal 42,8 al 41,2 per cento. Miracolo della maggior crescita del Pil. Un dato su cui i nuovi smemorati di Collegno, coloro che a tutto pensano salvo a come moltiplicare pani e pesci, dovrebbero riflettere. Per gli stessi motivi il rapporto debito/Pil migliora notevolmente. Dopo la grande abbuffata del 2020, dovrebbe diminuire, quest’anno di 2,1 punti e l’anno successivo di 4,1: dando avvio ad un sentiero discendente. Sul forte aumento che si è registrato nel 2020 vale la pena riflettere. Dimostra, se non altro, che il duo Conte – Gualtieri, nonostante il continuo endorsement da parte di Marco Travaglio&Co, hanno fatto ben poco per tenere sotto controllo la situazione italiana.
Va infatti sottolineato che era dal 1980 che non si verificava un aumento così consistente sia in termini di rapporto debito/Pil sia di valore assoluto. In passato il rapporto debito/Pil era aumentato al massimo di 10,4 punti nel 2009 e di 9,9 nel 1993 a fronte delle grandi crisi che avevano sconvolto non solo l’economia, ma la società, italiana; contro una crescita, nel 2020 di 21,3 punti. Mentre in termini nominali, sempre lo scorso anno, il debito aumentava di oltre 163 miliardi, contro i 112 ed i 100 degli anni citati in precedenza.
La presenza di Mario Draghi ha, pertanto, fatto bene al Paese, checché ne dicano e ne pensino gli irriducibili. Un cambiamento così repentino può essere giustificato soprattutto da un mutamento delle aspettative da parte di famiglie ed imprese. Probabilmente ha inciso anche il decorso della pandemia, anche se i dati disponibili non sembrano confermare grandi scostamenti. Secondo le elaborazioni della Johns Hopkins University i contagi a fine 2020 erano stati poco meno di 2 milioni ed i decessi oltre 70 mila. Negli ultimi giorni, invece, il totale dei contagi dall’inizio della pandemia sono stati pari a oltre 4,5 milioni di casi ed il numero dei decessi oltre 130 mila. Basta quindi fare una semplice proporzione, per cogliere la dinamica del fenomeno.
La personalità del presidente del consiglio, la presenza di ministri fuori dalla mischia politica nei posti chiave, la grande maggioranza parlamentare: sono tutti elementi che hanno contribuito a spiegare questo piccolo miracolo. Tanto più che alle parole (poche e misurate) del premier hanno seguito i fatti. Draghi non si è stancato di ripetere che il dilemma non è spendere o non spendere, ma spendere bene. Utilizzare cioè le risorse pubbliche per accrescere il tasso di crescita dell’economia, dalla cui dinamica dipende tutte le altre variabili del puzzle economico. Si deve spendere anche per il sociale, ma stando attenti a non alimentare fenomeni di puro assistenzialismo.
Da questo punto di vista, l’esempio da non seguire è proprio quello del reddito di cittadinanza. Che siano necessarie misure per combattere la povertà, è cosa buona e giusta. Lo stesso Draghi lo ha riconosciuto. Ma le norme in vigore sono un ibrido indigesto. Non combattono la povertà, tenendo conto dei parametri veri che la caratterizzano, trattandosi di semplici elargizioni del principe. Ma soprattutto hanno operato come disincentivo per la ricerca di una effettiva ricollocazione lavorativa. Per cui, alla fine, gli svantaggi – carenze di mano d’opera in determinati settori – sono stati superiori ai vantaggi rappresentati da una piccola ripresa della domanda interna, indotta dal sussidio di Stato.
Comunque sia, sono stati gli altri fattori a determinare un successo fino a ieri insperato.
Così l’Italia, anche nei confronti internazionali, è riuscita a vincere il primo set, ma la partita è ancora lunga. Ed è su questi tempi lunghi che dovranno calibrarsi gli sforzi successivi. La Nadef già prevede un rallentamento nel 2023 e nell’anno successivo. Da una crescita pari al 4,2 per cento si dovrebbe passare rispettivamente al 2,6 ed all’1,9 per cento. Ipotesi che, in qualche modo, conservano un pizzico di ottimismo. Per quegli anni, infatti, il Fondo monetario indica ben altri traguardi. Non tanto una semplice riduzione del tasso di crescita dell’economia italiana, quanto un nuovo sorpasso da parte dell’Eurozona, che dovrebbe annullare i precedenti primati.
Ancora più pessimistiche le previsioni di lungo periodo dell’Ocse. Le proiezioni al 2050, anno che campeggia sul simbolo dei 5 stelle, tolgono il respiro. Nel novero dei 38 Paesi considerati (le principali economie con la sola esclusione dei Brics: Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) l’Italia è ricacciata nell’ultima posizione. Una perdita di potenza che sarebbe pari al 25 per cento nei confronti dell’Eurozona, del 40 per cento rispetto ai Paesi dell’Ocse ed addirittura del 65 per cento rispetto all’economia mondiale. In questa discesa verso l’inferno, la stessa Grecia farebbe meglio.
Difficile fare valutazioni sul realismo di queste previsioni. Esse, come del resto quelle del FMI, esprimono tuttavia il sentiment del mercato. Sarebbe, pertanto, saggio non sottovalutarle ed attrezzarsi per smentirle anno dopo anno. Essendo consapevoli del fatto che sarebbe sufficiente un miglioramento di breve periodo per cambiarne l’indirizzo. Per cui i prossimi mesi, scanditi dalle importanti scadenze elettorali, potrebbero risultare cruciali. Ed ecco allora l’importanza di una politica economica non convenzionale, che richiede tuttavia una guida più che qualificata, per risultare credibile.
Per fortuna le condizioni ci sono. Sempre secondo la Nadef i prossimi anni saranno ancora caratterizzati da un surplus consistente delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Il che equivale a disporre di una sessantina di miliardi di risparmio in più, ogni anno, da poter investire sul mercato interno. Invece di dirottarle verso l’estero. Sempre che vi sia una politica economica in grado di farlo, reggendo alle spinte ed alle controspinte degli uomini a caccia di facili consensi.