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Se un leader oscillante non piace agli elettori. Il mosaico di Fusi

Il compito primario del leader di una coalizione è quella di mantenere unita la stessa: o con la forza dei consensi che schiaccia i compagni di viaggio o con la supremazia delle idee che fanno da traino per la leadership. Salvini che va su e giù sulle montagne russe inseguendo pezzi di elettorato che poi si sentono delusi dalle sue scelte, finisce per non convincere né gli uni né gli altri

Il grillismo di destra – dal corteggiamento ai no vax allo scontro sul fisco – segna l’ennesimo paradosso italiano. E l’atteggiamento sincopato di Matteo Salvini – un giorno con Draghi, quello dopo contro – è la cifra comportamentale e politica di un capo che non riesce a trovare una sua stabile dimensione. Il risultato è una crisi che esiste, ma viene negata e zavorra l’azione di governo. E anche qui, nel rovescio della medaglia: la determinazione di SuperMario non è l’espressione di una premiership che ama viaggiare in solitaria in una sorta di autismo di comando. Molto più semplicemente è la consapevolezza che gli impegni presi vanno mantenuti altrimenti la credibilità si disperde come sabbia nelle mani.

La realtà è che c’è un disperante vuoto di leadership nel centrodestra. Mentre a sinistra il crollo dei Cinquestelle relega Giuseppe Conte in un ruolo minoritario esaltando le doti di Enrico Letta, e al centro Carlo Calenda dimostra che lavorando sodo si possono ottenere risultati importanti, nel centrodestra l’eclissi inevitabile di Silvio Berlusconi ha acceso una competizione tra Lega e FdI che al momento produce scintille e sconfitte e lascia vuoto il ruolo di Commander in Chief quando il gioco si fa duro, scoprendo in quell’attimo che non ci sono duri da mandare in campo ma solo impuntature di scarso respiro. Il risultato è che Salvini, un tempo forte del 34 per cento alle Europee, tesoretto poi via via dissipatosi, oscilla come un pendolo in moto continuo battendo un tempo che è per forza divisivo. Se infatti si avvicina a Meloni, tende fin quasi a spezzarlo l’elastico con Forza Italia; se invece sceglie l’accordo di governo di larghe intese assieme al Cavaliere, spezza la coalizione e si perde Fratelli d’Italia.

Quello della mancata leadership nel centrodestra è al contempo un problema personale e un vuoto politico. Di personale e comportamentale c’è l’indole del capo della Lega che è movimentista per natura e poco incline alla strategia del passo dopo passo. Fu lui infatti che all’indomani delle elezioni del 2018 abbandonò la coalizione con la quale si era presentato agli elettori per stringere un patto politico e soprattutto di governo con il M5S allora guidato da Luigi Di Maio. Da quel momento – che fu un gesto a suo modo rivelatore del temperamento e delle convinzioni politiche perseguite – il percorso di Salvini è stato un continuo zig zag tra sbalzi e momenti di quiete, culminato nel trionfo alle Europee subito seguito dall’inciampo del Papetee. Così facendo è risultato il dottor Jekyll titolare di uno schieramento potenzialmente maggioritario nel Paese e il mister Hyde numero 1 di un partito di tipo leninista che guarda ai suoi interessi e disdegna quelli degli altri.

Un combinato disposto, come direbbero i giuristi, che invece di produrre adesioni crescenti ha seminato incertezze e favorito divaricazioni. Infatti il compito primario del leader di una coalizione è quella di mantenere unita la stessa: o con la forza dei consensi che schiaccia i compagni di viaggio o con la supremazia delle idee che fanno da traino per la leadership. Salvini che va su e giù sulle montagne russe inseguendo pezzi di elettorato che poi si sentono delusi dalle sue scelte, finisce per non convincere né gli uni né gli altri.

Se il grillismo, in crisi dappertutto, si trasferisce sorprendentemente a destra nei modi, negli atteggiamenti, nelle scelte finisce poter disorientare ancor più l’elettorato. Che alla fine preferisce stare lontano dai seggi. E il patrimonio di voti che doveva essere l’arma finale del centrodestra, si rivela spuntata e inefficace.


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