Intervista a Ian Lesser, presidente per l’Europa del think tank German Marshall Fund. Quello sull’Afghanistan è il G20 delle scomode verità, ora tutti vogliono parlare con i talebani. Arriva una catastrofe umanitaria, Cina e Russia non si possono escludere. Draghi? La presidenza italiana può fare strike, a patto che…
Un bagno di realtà. Il G20 straordinario sull’Afghanistan sotto la guida della presidenza italiana fa quel che può. Un forum così ampio non accontenta davvero nessuno, perché impedisce rivendicazioni e strategie nazionali, degli Stati Uniti come di Cina e Russia. C’è però una to-do-list da cui si può iniziare, e che deciderà il successo o la delusione della regia italiana firmata Mario Draghi, spiega a Formiche.net Ian Lesser, presidente del German Marshall Fund.
Lesser, non è un po’ tardi per mettersi al tavolo?
Tardi? Il lavoro è appena iniziato, siamo di fronte a una catastrofe umanitaria. Ottima la scelta di Draghi di convocare un G20 straordinario. Ora è il momento di passare ai fatti, e di abbandonare un po’ di illusioni.
Quali?
La prima: non si può gestire la crisi afgana senza parlare direttamente con i talebani. La seconda: quello che accade a Kabul ci riguarda, eccome. A due mesi dal caotico ritiro delle truppe Nato l’Afghanistan è scomparso dalle prime pagine dei giornali. E invece sull’uscita da questa emergenza umanitaria si gioca la credibilità dell’America e dei suoi alleati.
Xi Jinping e Vladimir Putin hanno dato forfait. Perché?
Il format del G20 non è ideale per le aspirazioni di Cina e Russia, che hanno un’agenda a parte per fare affari con i talebani e gestire la transizione di potere a Kabul. Ma c’è anche una diversa visione sulle priorità.
I diritti umani non sono in cima all’agenda, giusto?
Esatto. Questo dibattito sul rispetto dei diritti umani da parte dei talebani come precondizione dell’invio di aiuti umanitari a Kabul appassiona poco Mosca e Pechino. Lo stesso vale per i flussi migratori, che vogliono affrontare in autonomia.
Veniamo all’Europa. Il vuoto lasciato da Angela Merkel si fa già sentire?
In questo caso ha un impatto limitato. Certo, manca la sua regia dietro alla politica estera europea. Ma qui in ballo c’è una sfida che non può affrontare solo la Germania. Da una parte la crisi umanitaria, dall’altra un’ondata migratoria che investe per primi i Paesi confinanti e solo in un secondo momento l’Europa.
Il primo Consiglio affari interni dell’Ue sull’Afghanistan ha fatto una promessa solenne: gli aiuti e i fondi saranno consegnati solo alle organizzazioni umanitarie sul campo. Non è anche questa un’illusione?
Certo. Inutile girarci intorno: si possono anche inviare beni e denaro alle organizzazioni internazionali, ma senza un accordo duro, schietto con i talebani l’intervento è vano. Controllano qualsiasi punto di accesso al Paese, i movimenti al confine: parlarci è fondamentale.
Biden non ha mancato l’appuntamento. Dagli Stati Uniti però sembra filtrare scetticismo per un forum, il G20, che dà spazio alle rivendicazioni russe e cinesi.
Può non piacere, ma è inevitabile. Quella afgana è una crisi da cui non si esce senza stakeholder regionali, il G20 è il posto giusto per affrontarla. Si deve trovare un consenso internazionale almeno sui fondamentali, qui sta la sfida della presidenza italiana.
Ecco, l’Italia. In che modo Draghi può fare del G20 un successo?
Due priorità: l’agenda e i tempi. L’Italia vince se riesce a rimettere il dramma di Kabul al centro dell’agenda internazionale, a convincere l’Ue che da questo passaggio dipende anche il suo destino. Ma il tempo non è infinito: più si aspetta a intervenire, più i costi economici e securitari di un’Afghanistan instabile si faranno sentire, anche per l’America.
Che ora guarda meno all’Asia centrale e molto più all’Asia pacifica. Davvero gli Stati Uniti devono preoccuparsi di un Afghanistan terra di nessuno?
Non esistono terre di nessuno. L’America ha lasciato l’Afghanistan, lo Nato non lo considera più strategico. E tuttavia entrambe non possono permettersi di fingere che non esista. Il ritorno del terrorismo internazionale e la radicalizzazione sul campo sono segnali allarmanti.
L’Europa intanto pensa all’autonomia strategica. Difesa, tecnologia, investimenti. Può farcela?
Dopo l’annuncio di Aukus (l’alleanza militare nel Pacifico fra Stati Uniti, Regno Unito e Australia, ndr) abbiamo assistito a un ritorno dell’autonomia strategica europea a Bruxelles con i francesi a guidare la discussione. Bene, ora si passi ai fatti.
Ovvero?
Prima Biden, poi Blinken a Parigi hanno inviato un segnale chiaro: se autonomia europea significa più investimenti nella Difesa e più responsabilità nella gestione del vicinato, è nell’interesse americano. Dopo tanta retorica, a Washington aspettano ora i dettagli dei piani europei.