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Come (forse) ripartono i negoziati sul nucleare dopo la mossa iraniana

Di Gabriele Carrer ed Emanuele Rossi

A breve ripartiranno i negoziati sul Jcpoa, l’accordo sul nucleare con l’Iran. Teheran si presenta ai tavoli negoziali con davanti l’Unione europea che vuol mediare, gli Stati Uniti che non accelerano, Israele preoccupato

“Siamo d’accordo di iniziare i negoziati prima della fine di novembre”, ha scritto su Twitter Ali Bagheri-Kani, viceministro degli Esteri iraniano e capo negoziatore di Teheran sul nucleare. L’annuncio è giunto dopo un faccia a faccia a Bruxelles tra Bagheri-Kani ed Enrique Mora, numero due della macchina diplomatica europea, funzionario spagnolo di grande fiducia dell’Alto rappresentante Josep Borrell che gli ha affidato i delicati colloqui con Teheran.

I passi avanti potrebbero portare a sbloccare una situazione di stallo nelle trattative per il ritorno dell’Iran e degli Stati Uniti all’accordo Jcpoa durata cinque mesi. Pausa che, secondo alcune indiscrezioni, potrebbe aver permesso a Teheran di portare avanti il suo programma nucleare. Ma sia Stati Uniti sia Unione europea rimangono cauti, sottolinea il Wall Street Journal. Il timore è che l’Iran abbia ormai raggiunto un livello di sviluppo nucleare che rende obsoleto l’accordo del 2015. Addirittura Washington, che continua a risponde no alle richieste di Teheran di abolire tutte le sanzioni, comprese quelle legate a questioni non nucleari (per esempio, quelle sui diritti umani), tiene pronta una carta: aumentare la pressione economica così come quella diplomatica nel caso in cui l’Iran tornasse ai tavoli ma senza il necessario impegno.

L’Unione europea si è occupata finora di gestire i contatti diplomatici durante riunioni che si sono tenute a Vienna nei mesi passati. A parteciparvi erano funzionari del precedetene governo iraniano, quello del presidente Hassan Rouhani, che aveva portato il Paese alla firma del Jcpoa nel 2015. Insieme anche negoziatori americani, secondo la politica di riavvicinamento accorto messa in moto dal presidente Joe Biden. Le riunioni procedevano senza incontri diretti, ma con una staffetta diplomatica gestita dagli uomini di Mora. Non è chiaro se alla ripresa i colloqui sarà ancora sotto questo formato.

Quel che è certo che per l’Iran si siederanno i nuovi rappresentanti inviati da Ebrahim Raisi, presidente conservatore che però intende mantenere una linea pragmatica. Pragmatismo che guida il comportamento di Washington. Se l’Unione europea cerca nel dossier uno spazio di mediazione – ruolo che cavalca nell’ambito delle relazioni internazionali – gli Stati Uniti intendono prendersi tempo e non mollare le pressioni esercitate sull’Iran. Un esempio sta nell’aver fatto uscire sui media che la colpo di un recente attacco contro forze americane in Siria ricade direttamente su Teheran. Si tratta di azioni in cui spesso sono sfogate le tensioni dei Pasdaran sui negoziati, di solito minimizzate da Washington, che invece stavolta hanno preso una sottolineature dai valore politico. Sintomo che al di là del contatto pubblico sul nucleare, tra gli Stati Uniti e la Repubblica islamica ci sono diversi gradi di separazione (e molti riguardano le zone di influenze nel Medio Oriente).

In quello che suona come un inno alla politica della deterrenza, Dennis Ross, distinguished fellow del Washington Institute for Near East Policy e docente alla Georgetown University, ex funzionario in tutte le amministrazioni che si sono succedute da Ronald Reagan a Barack Obama, ha raccontato su Foreign Policy che l’amministrazione Biden avrebbe detto al governo israeliano (“come ho appreso recentemente in Israele”, scrive) che c’è “una buona pressione sull’Iran e una cattiva pressione”. Sotto quest’ultima definizione rientrano per esempio i sabotaggi a Natanz e Karaj: “gli iraniani ne hanno approfittato”, scrive Ross.

Con l’Iran più vicino all’arma nucleare, Israele potrebbe tentare di coinvolgere i nuovi amici sotto l’accordo di Abramo. Ipotesi però che i Paesi del Golfo – recentemente visitati dal capo negoziatore americano – che hanno da poco riconosciuto lo Stato ebraico sembrano decisi a escludere temendo ritorsioni da parte di Teheran. Con gli Stati Uniti per niente disposti a una nuova guerra senza fine dopo essere usciti da quella in Afghanistan, a Israele rimane una strada, secondo l’Economist: la sua deterrenza combinata con le pressioni diplomatica ed economica occidentale per persuadere l’Iran ad accettare un accordo diplomatico. “L’Iran può essere scoraggiato”, ha spiegato un funzionario israeliano al settimanale. “Non vuole essere la Corea del Nord”. Sempre che i mullah non concludano che soltanto le armi nucleari terranno al sicuro il loro regime.



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