A dieci anni dalla Primavere arabe, la regione mediorientale continua a vivere di grande fluidità. Potrebbe però essere il momento giusto per cambiare la situazione. Conversazione con Alessandro Minuto Rizzo, presidente della Nato Defense College Foundation, che la scorsa settimana ha organizzato il convegno Arab Geopolitics
Nonostante l’estrema complessità del mondo arabo e la frammentazione regionale, la diminuzione di interesse per l’area da parte di grandi attori internazionali potrebbe essere la chiave di volta per una maggiore stabilità. Ne è convinto l’ambasciatore Alessandro Minuto Rizzo, presidente della Nato Defense College Foundation, che la scorsa settimana ha organizzato l’evento “Arab Geopolitics 2021”, settima edizione della rassegna dedicata al mondo arabo, in scena dal 2011, che riunisce regolarmente esperti, addetti ai lavori e rappresentanti istituzionali della regione mediorientale per discutere degli sviluppi strategici e politici nell’area, con le conseguenti implicazioni di stabilità e sicurezza.
Ambasciatore, partiamo da un bilancio dell’evento?
Il convegno ha mostrato il momento di grande fluidità della geopolitica araba. Continua a prevalere una certa frammentazione. Sembra che questi Paesi non si parlino neanche tra di loro, e che i migliori momenti di incontro siano in realtà fuori dall’area. Questo è il grande problema. La Lega Araba non riesce a esprimere coordinamento, e ciò non aiuta a prevede come possa svilupparsi l’enorme complessità del mondo arabo.
Da vari interventi è emersa l’idea che, dopo l’Afghanistan e la riduzione dell’interesse americano per la regione, possa essere il momento buono per i Paesi arabi di adoperarsi maggiormente per la loro stabilità. È così?
Sì, questo potrebbe essere un inaspettato fattore di positività. La diminuzione di interesse da parte di alcuni grandi attori obbliga i Paesi della regione a trovare un equilibrio interno. Il fatto che gli Stati Uniti siano meno interessati all’area, se non su alcuni argomenti specifici, costringere i popoli a non nascondersi più dietro un potente attore esterno, e dunque ad assumersi le proprie responsabilità. Non è semplice, ma mi pare una strada obbligata.
Tra i punti di maggiore divergenza rimane la postura da adottare nei confronti dell’Iran. Perché?
Con una certa dose di strano umorismo potrebbe dire che la postura iraniana costituisce un elemento di problematicità da qualche migliaio d’anni. L’Iran è più forte di molti singoli Paesi arabi e, con molteplici contraddizioni, persegue da secoli un’impostazione da grande potenza, con una tendenza naturale ad espandersi nella regione. Per il futuro ritengo che l’unica strada possibile sia il dialogo. Abbiamo visto più e più volte che le sanzioni non risolvono i problemi. Possono essere la giusta punizione per un cattivo, ma non ottengono i risultati sperati quando sono applicate a un regime forte che ha un solido controllo interno e fa appello al nazionalismo che le stesse sanzioni alimentano. Anche qui si scorge però un elemento di positività.
Quale?
Le recenti elezioni in Iraq. La tornata elettorale sembra aver mostrato una maggiore indipendenza di Baghdad nei confronti di Teheran. Pare un passo verso una positiva direzione di autonomia di cui può beneficiare l’intera area.
Nel processo di assunzione di responsabilità da parte dei Paesi arabi, che peso possono avere gli Accordi di Abramo e la normalizzazione dei rapporti con Israele?
Non è ancora chiaro. Gli Accordi di Abramo devono ancora esprimere il loro intero potenziale. Per ora mi sembra di capire che abbiamo dato buoni risultati sul piano dei rapporti commerciali e dei movimenti di persone. Tuttavia, sul piano dell’equilibrio politico si può dire che l’effetto sia stato per ora marginale. Si pensi al Sudan, che mentre sembrava sulla strada del ritorno alla normalità ha subìto un colpo di stato militare.
A complicare il quadro regionale c’è la crisi che sta scuotendo il Libano…
Sì. Il Libano sta scivolando verso l’anarchia. Onestamente non vedo una soluzione. Sembra già uno Stato fallito, su cui i diversi tentativi di stabilizzazione dall’esterno non sembrano funzionare, compresi quelli francesi promossi da Emmanuel Macron.
E l’Europa?
Ancora si assiste alla mancanza di coordinate posizioni europee nei confronti della regione araba su alcuni temi minori. In tema di grande politica di competizione tra Paesi resta un fatto su cui riflettere: l’Europa dà all’esterno un’impressione di debolezza. Punta sulla soft policy e sembra avere orrore per le armi e la violenza, riponendo tutte le speranze su dialogo e compromesso. Ciò riguarda un interrogativo in qualche modo filosofico, di civiltà e non solo di geopolitica. Tuttavia continua a determinare una scarsa influenza dell’Europa sui grandi dossier. Piccole operazioni come Irini per la Libia restano cose modeste.
Arab Geopolitics ha avuto il merito di riunire e far parlare tra loro rappresentanti di tanti Paesi arabi. Era questo l’obiettivo?
Assolutamente sì. Questo è l’obiettivo che, nel nostro piccolo, ci siamo posti: chiamare la gente e farla parlare. Significa costruire ponti, ed è forse ciò che funziona di più in questa fase. Una sorta di approccio bottom up, che parte dalle piccole coste, dai progetti e dai contatti tra la società civile, i gruppi, le città e le società. Alla fina è questo che assicura l’equilibrio. A dieci anni dalle Primavere arabe le società locali continuano a essere al di sotto di quello che ci si aspetterebbe. È un momento di grande difficoltà, e noi speriamo che mettendo in contatto la gente e costruendo ponti le cose cambino.