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Così dal G20 passano le supply chain globali

Le catene di approvvigionamento globale sono in crisi, subiscono ancora l’effetto della pandemia, stanno producendo colpi pesanti alle economie. Per questo sono in cima all’agenda del G20 (anche per volere degli Usa)

Uno degli obiettivi del G20 è salvare gli acquisti di Natale — se non quello di quest’anno, ormai in parte perduti, i futuri. L’affermazione è chiaramente provocatoria, ma l’intento dichiarato: il problema della logistica globale, delle cosiddette supply chain, le catene di rifornimento internazionali di cui la pandemia ha mostrato tutte le debolezze, è in cima all’agenda del meeting tra i Grandi ospitato dall’Italia come presidente di turno.

Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha convocato una riunione specifica con i leader globali mentre è a Roma, nella speranza di alleviare i punti di pressione nel sistema commerciale che avvolge il mondo. La catena di approvvigionamento internazionale sta mal sta sopportando il peso dell’aumento della domanda dei consumatori, delle alte spese di trasporto, delle carenze di manodopera, dei ritardi nella produzione all’estero, delle politiche commerciali e dell’inflazione, dell’interruzione degli orari dovuta alla pandemia e della carenza di lavoratori portuali.

Dubai è stato solo l’ultimo dei Paesi che hanno suonato l’allarme, annunciando la scorsa settimana che tutte le importazioni nel suo aeroporto internazionale sarebbero state sospese per sei giorni in modo da smaltire un arretrato di (s)carichi non ancora elaborati. Ma è nei porti il segno più visibile della crisi. Da Los Angeles a Shanghai, ci sono quasi 600 navi container bloccate in attesa di essere scaricate e merci che ritardano l’ingresso nel mercato.

I costi di trasporto sono saliti alle stelle. Il prezzo medio globale della spedizione di un container da 40 piedi è ora di quasi diecimila dollari: tre volte più alto che all’inizio dell’anno e 10 volte i livelli pre-pandemia. Poiché il mondo è diventato così dipendente dalla Cina per la produzione (con Pechino che appesantisce le dinamiche con la politica “zero Covid”), i problemi attuali potrebbero durare anche due anni, almeno stando alle analisi fornite dal presidente di DP World, colosso emiratino e top player tra gli operatori dei porti container.

A Los Angeles e Long Beach — il punto d’ingresso per circa il 40 per cento di tutte le merci importate — i container si estendono fino al mare, e davanti a questo il presidente Biden ha ottenuto a inizio mese che alcune grandi compagnie come Walmart, UPS e FedEx estendano il loro orario di lavoro. Ma le operazioni 24 ore su 24 avranno ancora bisogno di un massiccio coordinamento tra i porti a gestione pubblica e i gruppi del settore privato come i rivenditori e le compagnie di trasporto. “La tempistica per l’economia statunitense è disastrosa”,  scrive il Financial Times ricordando che sta arrivando la lunga stagione dello shopping che tradizionalmente inizia dopo il Ringraziamento (a fine novembre).

Fare qualsiasi cosa per salvare il Natale è ormai una delle principali forze trainanti delle politiche commerciali dei Paesi più evoluti, il rischio è comunicare ai cittadini (elettori) una sensazione di caos. L’opposto di quel che serve ai governi per lanciare la ripresa post pandemia.

Parlando ai giornalisti sull’Air Force One in viaggio verso Roma, il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan ha detto che tra le priorità statunitensi c’era quella di discutere di questi temi con gli altri leader (che messi insieme rappresentano l’80 per cento delle economie globali). Il piano è quello di trovare modi in cui i governi possano alleviare i punti di pressione nel sistema commerciale globale.

Con l’economia del Mondo al centro dell’attenzione, perché la pandemia continua ad avere un impatto sulla ripresa, il come i Paesi possano rispondere in modo coordinato (o indipendente) è una questione da G20. Per Biden c’è l’opportunità di condurre discussioni senza condividere il palco con il presidente cinese Xi Jinping o il presidente russo Vladimir Putin, che non saranno presenti, e dunque di far valere il peso della leadership americana. Un ruolo che il democratico sa giocare anche in funzione delle capacità acquisite durante la sua lunghissima carriera politica, quando come senatore prima (per altro chairman della Commissione Esteri) e come vicepresidente poi portava avanti certe discussioni anche in via meno formale.

Il tutto mentre Biden ha giurato di riparare le distanze con alcune alleanze attraverso la diplomazia e ripristinare la posizione di leadership di Washington sulla scena globale dopo anni di politiche “America First” perseguite dal suo predecessore repubblicano, Donald Trump. Al G20 va in scena una coreografia diplomatica in cui l’attuale presidente statunitense si sente perfettamente a suo agio. “Biden vuole usare il G20 per coinvolgere i leader di alcuni degli Stati più importanti del mondo nell’affrontare le sfide economiche a breve termine, comprese le interruzioni dell’approvvigionamento e gli effetti in corso di Covid”, ha spiegato Joshua Shifrinson, professore associato di relazioni internazionali alla Boston University.

Awi Federgruen, un esperto di produzione e gestione e professore alla Columbia University Business School di New York, dice alla CNBC che anche altri pezzi della catena di approvvigionamento devono essere affrontati: “Non si tratta solo di riparare i porti, che sono una componente di una catena di approvvigionamento molto lunga”, ha detto Federgruen, notando le carenze di manodopera nel settore dei trasporti e dei magazzini.

Centinaia di navi in attesa all’ancora in tutto il mondo sono l'”effetto” (e non la “causa”) di questi colli di bottiglia della logistica interna che si riversano nell’infrastruttura portuale. Le sfide della catena di approvvigionamento terrestre sembrano essere un po’ universali, ma il Nord America e l’Europa sembrano essere le più significativamente colpite”, ha detto Jeremy Nixon, Ceo di One, compagna di spedizioni statunitense.

Al G20 inoltre si passerà — con tutte le sensibilità del caso — su un altro genere di colli di bottiglia, quello geopolitici. I grandi stretti come Suez, il Bosforo, il Canale di Sicilia nel Mediterraneo; Malacca, Tsugaru, Bab el Mandab, Taiwan, nell’Indo Pacifico; il Golfo di Guinea nell’Atlantico e ancora le rotte dell’Artico, stanno diventando hotspot sempre più infuocati di frizioni securitarie o strategiche e rischiano di essere un enorme moltiplicatore nelle debolezze degli approvvigionamenti se dovessero precipitare oggetto (sfogo) di crisi geopolitiche e diplomatiche.

Figurarsi se dovessero essere parti di confronti militari, come alcune dinamiche dimostrano. Argomenti su cui i grandi del pianeta sono chiamati a una quasi utopica operazione di distensione generale. E allo stesso tempo nodi geografici e geomorfologici in cui la talassocrazia statunitense può trovare ragioni per consolidare alleanze e controlli con cui contenere i propri rivali strategici.



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