Mentre procedono i preparativi per riprendere i negoziati, i Pasdaran muovono le loro pedine e i difendono i loro interessi. L’Europa nel frattempo si sta impegnando molto per permettere ai prossimi colloqui di Vienna di essere fruttuosi. Gli incontri sono guidati dal team di Enrique Mora, direttore politico del servizio Esteri dell’Ue, e sono i diplomatici europei che si occupano di fare la staffetta tra iraniani e statunitensi — e di parlare con russi e cinesi
“Se non fosse che tra venti giorni esatti dovranno ripartire i colloqui per cercare di ricomporre il Jcpoa (l’accordo sul programma nucleare iraniano, ndr) probabilmente quello che stanno facendo le milizie sciite in giro per il Medio Oriente e non solo passerebbe sotto conseguenze ben più dure”, spiega a Formiche.net un’analista di un team diplomatico di un Paese europeo che preferisce mantenere l’anominato. L’Europa d’altronde si sta impegnando molto per permettere ai prossimi colloqui di Vienna di essere fruttuosi. Gli incontri sono guidati dal team di Enrique Mora, direttore politico del servizio Esteri dell’Ue, e sono i diplomatici europei che si occupano di fare la staffetta tra iraniani e statunitensi — e di parlare con russi e cinesi, altri lati del sistema che nel 2015 creò l’accordo, tre anni dopo del tutto affossato nel funzionamento dalla decisione dell’amministrazione Trump di ritirarsi.
“Quanto accaduto a Baghdad è spaventoso”, aggiunge quella stessa fonte riferendosi al tentato assassinio del premier Mustapha al Kadhimi, la cui casa è stata centrata da due droni esplosivi che secondo l’intelligence irachena sono stati guidati verso l’edificio da “almeno una milizia sciita”. La Farnesina, così come i ministeri di diversi altri Paesi, ha condannato ufficialmente l’attacco.
Ci sono alcune note da appuntare su quanto accaduto, utili a delineare quella che il mondo anglosassone definisce la big pitture. Innanzitutto quel “almeno una” è parte delle informazioni arrivate alla stampa perché spesso queste milizie si muovono in associazione, una parte mette a disposizione l’hardware e l’altra informazione, logistica e competenze, per esempio. Tutto (altra nota) solitamente fornito dall’Iran attraverso i Pasdaran. I Pasdaran sono il corpo militare teocratico della Repubblica islamica di Iran: il termine è una semplificazione giornalistica Corpo delle guardie della rivoluzione islamica, anche Sepāh. Per anni sono stati facilitati nel fornire armamenti ai gruppi sciiti regionali dall’instabilità generale e soprattutto dal contesto caotico siriano.
Questo gli ha permesso di crearsi una dimensione internazionale e rafforzarsi in Iran. Gli effetti si vedono: gli Stati Uniti e l’Unione europea sono particolarmente preoccupati perché stanno notando un aumento delle capacità tecnologiche di questi gruppi armati — che sono accomunati ai Pasdaran dall’ideologia (in questa trova spazio una buona aliquota di anti-occidentalismo) e dagli interessi reciproci. Le milizie vivono grazie ai Pasdaran, i Pasdaran vivono (soprattutto) grazie alle milizie e alla loro capacità di esercitare influenza — in Iraq come in Libano, ma anche in Yemen e Siria, in Afghanistan e in alcuni contesti africani e sudamericani, nei Balcani.
Questo porta a un’altra considerazione: Israele è già passato al livello successivo e ritiene l’Iran responsabile di tutto quello che fanno le milizie (siano la super-organizzata Hezbollah con cui non ha mai chiuso la guerra del 2006, oppure gli Houthi yemeniti o i gruppi iracheni). Gli altri Paesi no: recentemente gli Stati Uniti hanno mandato un segnale in questo senso, accusando Teheran per un attacco subito dalle forze speciali che si trovano nella remota base siriana di al Tanf: la denuncia non è stata ufficiale, ma le varie spifferate arrivate alla stampa non sono mai state smentite — dunque erano un messaggio.
Quell’attacco, pure in quel caso condotto con droni, era l’ennesimo di una lunga serie che ha avuto come obiettivi sia l’ambasciata americana di Baghdad sia basi usate dagli Usa in Iraq. Di questo ingaggio continuo sono parte anche le tensioni che si sono create nel Golfo Persico attorno al mondo del petrolio: tanker danneggiati, a volte sequestrati, tubazioni di carico misteriosamente esplose.
In questi giorni Tasmin, un media collegato ai Pasdaran, ha pubblicato un poster che riprende una petroliera nel Golfo e scrive: “Se il nemico non avrà paura, attaccherà; Se non avranno paura, oseranno invadere”. Recentemente gli iraniani hanno detto che una loro petroliera è sfuggita a un tentativo di blocco da parte della US Navy. Gli americani si trovano in quelle acque sia per esercitare deterrenza sia per osservare i traffici petroliferi con cui la Repubblica islamica cerca di sfuggire alle sanzioni di Washington — reintrodotte dopo l’uscita dal Jcpoa.
In una di queste attività di contro-deterrenza (in cui rientrano in parte anche le azioni delle milizie, per far paura al nemico) gli iraniani due anni fa hanno abbattuto un Global Hawk davanti allo Stretto di Hormuz. Il grande drone americano era in missione di pattugliamento e forse ha sconfinato, la contraerea iraniana ha sparato e colpito, Washington ha evitato risposte dirette che avrebbero potuto di fatto innescare un conflitto. Così è stato quando gli americani (gennaio 2020) hanno ucciso la mente della strategia delle milizie, il generale Qassem Soleimani, nei pressi dell’aeroporto di Baghdad: l’Iran rispose con una salva controllata di missili contro una base irachena che ospita militari Usa. Il Pentagono, per evitare problemi anche con l’opinione pubblica ha sempre minimizzati i danni subiti. E via dicendo, compresi in questo schema i sabotaggi dall’interno dei tentativi di Teheran di portare avanti un programma militare — in questo caso le operazioni sono condotte da squadre del Mossad dall’aurea mitologica in accoppiata con la Cia (e forse tra qualche tempo saranno soggetto di serie televisive).
Quello che succede in questi giorni non è niente di nuovo, insomma, sebbene il ripetersi continuo di situazioni di tensione non sia niente di rassicurante. L’obiettivo degli americani e degli europei è di costruire, attraverso la ricomposizione del Jcpoa, un’impalcatura di dialogo con Teheran. L’esistenza di frange estremiste interne è un dato di fatto e tale resterà, ma lo scopo è di creare un ponte (che passa dal rientro iraniano nella compliance dell’accordo e dall’abolizione delle sanzioni americane) che possa facilitare il governo e aiutare lo sviluppo iraniano. Lasciando ai margini della società iraniana i facinorosi.
Tanto più se tutto questo dovesse intersecarsi con due fattori. Il primo è che al tavolo dei negoziati si siederanno per la prima volta i delegati scelti da Ebrahim Raisi, il presidente conservatore che però dal predecessore riformista Hassan Rouhani potrebbe aver ereditato forme di pragmatismo. In questi giorni per esempio alcuni di quei delegati faranno tappa a Berlino, Parigi, Londra e Madrid per preparare il terreno per gli incontri di Vienna. Il secondo fattore riguarda il malcontento interno: la crisi economica porta i cittadini (soprattutto i giovani) a pressare governo, presidenza e leadership teocratica, chiedendo tra là varie cose il ridimensionamento del ruolo dei Pasdaran.
Contemporaneamente questi ultimi si muovono sul campo mandando segnali. L’attacco in Iraq è un messaggio forte e pericoloso, che complica la capacità dell’Iran di mostrarsi come un attore in grado di controllare i propri eccessi. Ossia fa venir meno il senso profondo del dialogo cercato, crea impazienza, nervosismo tra diverse parti della Comunità internazionale.
Alle attività delle milizie filo-iraniane va però aggiunto il contesto locale. Come gli Houthi lottano per conquistare lo Yemen, in Iraq le milizie si muovono secondo agende dirette. Nel caso, contestano i risultati delle elezioni del 10 ottobre, in cui hanno subito una battuta di arresto anche in favore del chierico sciita Moqatad al Sadr — che ora contesta i collegamenti con l’Iran in nome di una sovranità populista e che è il principale stakeholder del governo Kadhimi. Non è un caso se, poche ore dopo il tentato assassinio del premier, l’erede di Soleimani si è precipitato a Baghdad quasi a cercare di fornire spiegazioni (come giustificare quei figliocci troppi irruenti).
Se arrivati a questo punto si è portato a credere che tutto questo sia un racconto di politica estera e geopolitica lontano dall’Italia, sfuggono alcuni dettagli. Innanzitutto, quanto accade si svolge all’interno del bacino in cui il nostro Paese muove la sua proiezione internazionale, il Mediterraneo allargato. Inoltre, Roma, e non solo per l’autorevolezza del governo Draghi, viene considerata dall’Iran una buona sponda per il dialogo sul Jcpoa — anche se l’Italia per ora è fuori dal sistema “5+1” che lo sta negoziando. Poi c’è l’Iraq, dove il contingente italiano guiderà tra qualche mese la missione Nato, che sta diventando sempre più importante. Inoltre ci sono le acque del Golfo, dove l’Italia è presente per monitorare i traffici (commerciali, e anche petroliferi) attraverso la missione europea “Emasoh” — acque dove in questi giorni sta mostrando gli armamenti la marina iraniana. Infine, i Paesi coinvolti in queste dinamiche sono tutti partner o alleati di Roma — due giorni fa il ministro Luigi Di Maio ha avuto un colloquio anche su questo con il suo omologo emiratino.