Parlare di Difesa comune europea è cosa buona e giusta. Eppure, con lo Strategic compass si è tornati a trattare di nuovo di numeri (cinquemila uomini), mentre per ora ci si dovrebbe occupare, finalmente ed esclusivamente, di concetti legati al “chi e cosa vorremmo essere da grandi”. L’analisi del generale Mario Arpino, già capo di Stato maggiore della Difesa
Da quando, nel 2016, era stata presentata la nuova Strategia globale dell’Unione, il vocabolo Difesa (mai amato nei palazzi di Bruxelles) ha ricominciato a fare capolino, e in verità negli ultimi anni le iniziative sono state più d’una. Ormai si discute apertamente su come migliorare la dimensione della collaborazione nel settore “sicurezza e difesa”, ma le iniziative intraprese hanno riguardato soprattutto approvvigionamento e sviluppo, finanziamenti dei programmi e collaborazione industriale. Un bel salto di qualità, non c’è che dire, da quando, entrando in uniforme negli ascensori e nei corridoi di quei palazzi venivamo guardati con stupita curiosità, qualche sospetto, distaccata cortesia e forse anche un educato fastidio dagli innumerevoli funzionari in completo grigio a righine che si trasferivano in fretta, lungo i corridoi, da una sala riunione all’altra. Oggi, trascorsi più di vent’anni, mi dicono che non è più così, e questo è senz’altro uno dei progressi della Ue.
Ricominciare a parlare di Difesa comune europea è cosa buona e giusta. Purché si intenda esattamente cosa si sta cercando di dire e di fare, perché lo si fa e in quali tempi, una volta che, passo per passo, se ne siano create le condizioni. Se è, vero, come un tempo ci insegnavano, che le Forze armate sono “fattore di potenza e strumento di politica”, non è affatto banale cominciare a trasferire questo concetto dai singoli Stati, e dal Consiglio che li rappresenta, negli organi comunitari dell’Unione. Prima però, ci vorrebbe un accordo sulla “politica” comune. In quanto alla “potenza”, sinora abbiamo cercato di stendere un velo e di non parlarne. L’inconsistenza e le dimensioni delle missioni internazionali dell’Ue ne sono, assieme, conseguenza e testimonianza.
Il “trasferimento” era già stato tentato anche in precedenza, ma in un clima culturale ancora prematuro e con democraticissime regole (il mantra dell’unanimità) che continuano, da anni, a paralizzare ogni capacità di decidere. Certo, un Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza esiste e cerca di attivarsi come può e come sa, ma i suoi poteri sono ancora fortemente condizionati dal discorde parere di gruppi di Stati che, assai diversi per tradizioni, lingua e cultura, ovviamente nutrono aspirazioni, timori ed entusiasmi estremamente diversificati. Era stato intravisto un possibile, raro concetto unificante, ovvero le comuni radici giudaico-cristiane dei nostri popoli, ma è stato inesorabilmente affondato prima che potesse assumere un minimo di consistenza costituzionale.
Non è mai stato facile, nell’Ue, parlare di Sicurezza e Difesa. Tant’è vero che non esiste neppure il foro per farlo: l’organo che ancora conserva un potere prevalente sulla Commissione e sul Parlamento è il Consiglio, il quale si riunisce in vari formati (esteri, finanze, interni, ecc.), ma non nel formato “ministri della Difesa”. Un conto, quindi, è ricominciare timidamente a parlare di Difesa europea, mentre cosa diversa sarebbe perseguire, sin d’ora, la formazione di Forze armate dell’Unione. Vent’anni fa, a Helsinki, era emerso un orientamento piuttosto utopistico verso un Esercito unificato di settanta mila uomini. La Ueo (Unione europea occidentale, organizzazione che nelle rare riunioni chiamavamo scherzosamente “la bella addormentata nel bosco”), nel frattempo si era dissolta. Aveva lasciato in eredità alla Ue solamente il modesto Centro di controllo satellitare di Torrejon (Madrid), non in grado di fornire a un eventuale Esercito europeo il supporto che, su specifico accordo, viene concesso alle operazioni “europee” dall’Intelligence di matrice Usa dell’Alleanza.
Siamo anche arrivati alla costituzione di alcuni Battlegroup, realizzati e mai utilizzati per la congenita incapacità politica di decidere. Oggi, con lo Strategic compass (bussola strategica), si parla di nuovo di numeri (cinquemila uomini), mentre per ora ci si dovrebbe occupare, finalmente ed esclusivamente, di concetti legati al “chi e cosa vorremmo essere da grandi”. Senza una (forse utopistica e comunque lontana) unificazione politica, esprimersi ora con numeri è come, prosaicamente ma classicamente parlando, cercare di mettere il carro davanti ai buoi. Un po’, nessuno si scandalizzi, come volutamente a suo tempo era stata forzata l’introduzione dell’Euro in quanto, con ogni probabilità, non ci sarebbe stato alcun altro modo di avviare l’impresa. Ma poi ci siamo fermati. Moneta che al momento ancora funziona, per chi viaggia è assai comoda, ma che evidenzia ogni giorno di più i limiti dovuti al suo vizio d’origine.
Tentativi di realizzare Forze armate che si potessero definire europee ci sono sempre stati, ma, sinora, sono falliti. In passato quasi sempre erano stati i cugini d’oltralpe a pendere l’iniziativa, nel bene e nel male. Chi è appassionato di storia sa bene che fu l’uomo forte del re di Francia Enrico IV, Maximilien de Béthune, duca di Sally e ministro delle finanze, a teorizzare per primo l’esigenza di un esercito europeo. Eravamo all’inizio del Seicento. Ma è giusto anche ricordare che la mancata realizzazione della Comunità europea di difesa (Ced), che avrebbe accelerato l’unità politica, va pur sempre ascritta alla netta contrarietà francese, allora espressa da Charles De Gaulle.
È noto come la Francia abbia sempre covato la non troppo recondita aspirazione di voler immaginare il proprio presidente come il Cinc (Commander in chief) europeo, alla pari di quello americano, che però lo è costituzionalmente. Come dire: “se comando io l’esercito europeo si fa, altrimenti, niente”. È così che è sempre fallito anche il più volte tentato asse franco-tedesco, come pure sono rimasti lettera morta gli accordi di S. Malo del 1998, tra Francia e Regno Unito. Si è sempre incolpata Londra di tutti i fallimenti, ma siamo proprio certi che dopo la Brexit, militarmente, le cose andranno meglio? Porsi questo dubbio è più che lecito, tanto più che il Regno Unito in campo militare non sarà affatto fuori del tutto. Mai, ed è ciò che auspichiamo.
L’Alto rappresentante Josep Borrell mercoledì ha illustrato al collegio dei commissari una prima bozza di quello Strategic compass che, una volta approvato (unanimità?) dovrà indicare all’Europa la direzione di marcia sotto il profilo della Sicurezza e della Difesa, grandezze per nulla costruite con la stessa materia. Borrell aveva ricevuto l’incarico l’anno scorso dal presidente tedesco del Consiglio europeo. Ci sembra di aver sentito parlare troppo di Indo-Pacifico, troppo poco di Mediterraneo allargato e poco o nulla delle partnership militari e industriali con il Regno Unito. La versione finale dovrà essere comunque approvata entro il primo semestre 2022. Quando, guarda caso, la presidenza del Consiglio europeo spetterà alla Francia.