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In attesa di un’unità economica

Un Paese “dualista” – economicamente dimidiato, non solo territorialmente diviso e regionalmente squilibrato sotto i più diversi profili – può certo conoscere, in talune condizioni, un processo di unificazione economica e di coesione, ma in termini che storicamente non saranno di sicuro né facili né prossimi.
L’Italia, Paese giunto ultimo in Europa all’unificazione politica e all’industrializzazione del pur più favorito suo nord, si è caratterizzata per il grave ritardo nei progressi dell’economia concorrenziale e dell’occupazione della sua più “debole” macro-regione meridionale, prima e dopo l’Unità.
Una analoga ma ben più marginale e breve condizione di “dualismo” rispetto a quella italiana si è verificata in Europa dopo l’ultimo conflitto mondiale, che ha visto la riunificazione politica tra est ed ovest di alcuni dei länder della Germania, e l’approccio articolato e forte allo sviluppo economico, anche grazie al cospicuo impegno, per circa un ventennio, in favore dei territori già assegnati alla Repubblica democratica tedesca, regioni in cui la Repubblica federale ha saputo investire per un ventennio circa 75 miliardi di euro all’anno, e cioè 1.500 miliardi, pari ad assai più volte le risorse investite dall’Italia in favore del proprio Mezzogiorno.
 
Le somme utilizzate nel corso del dopoguerra nel sud su fondi nazionali e americani, e più tardi anche europei, sono certamente servite a salvaguardare alcune importanti realtà produttive. Ma deve esser chiaro che non sarà soltanto la dimensione monetaria di un qualsivoglia pur necessario impegno citato nel recente “Piano per il Sud” (si promettono 100 miliardi di euro, ma già si parla di soli 75-80 miliardi di fondi nuovi e freschi, essendo state dirottate troppe risorse verso il nord leghista) a rendere possibile e probabile il superamento del dualismo e dei molteplici divari e squilibri, che le nostre macro-regioni presentano ed evidenziano.
Gli interventi dovranno riguardare opere pubbliche, infrastrutture logistiche e strategiche, ma anche interventi per una rinnovata e semplificata incentivazione, grazie a misure fiscali di “compensazione e vantaggio”, inquadrate in una strategia unitaria, in cui i tempi delle realizzazioni – specie se relativi a “reti” di opere e di imprese che facciano sistema – dovrebbero avere valore determinante, dato che occorrerebbe saper rendere il Mezzogiorno e la sua economia “straordinariamente competitivi”, come avvenne nei poco più che 20 anni del migliore intervento avviato negli anni 1955-1975 dalla Cassa per il Mezzogiorno, e che ebbe a cessare in ragione della accresciuta presenza degli esponenti delle regioni meridionali negli organi decisionali dell’intervento “speciale” e “straordinario” al sud.
 
È evidente che – a parte gli incerti esiti dell’incombente “federalismo fiscale” – l’esito del nuovo “Piano nazionale per il sud”, disegnato con riferimento al ciclo europeo programmato fino al 2013, potrà avere effetti significativamente determinanti solo nella misura in cui esso avrà forti ed originali contenuti anche “centrali”, e se le Regioni troveranno il modo di operare in termini coordinati e congiunti, ed in armonioso accordo con la nuova e tremontiana Banca del sud (di cui peraltro non si conoscono ancora i possibili modi e termini di operatività).
Tutto si può fare, compreso lo sviluppo di aree e nuclei industriali vecchi e nuovi, che rilancino artigianato e commerci. Ma nulla si farà senza il determinante ruolo di autorità pubbliche regionali tra loro non conflittuali, e che vedano il loro successo non certo nella rispettata autonomia, ma nella collaborazione più ampia di strutture, servizi e strategie.
Solo nel quadro di siffatte strategie diventa determinante e utile il ponte sullo Stretto di Messina – che pure è vincolo per l’Av Berlino-Palermo – e forse lo stesso tunnel per le merci sotto il Canale di Sicilia, visto come alternativa a quello sotto Gibilterra; come pure la realizzazione, sollecitata dall’Europa, in ordine alla direttrice Napoli-Bari-Tirana-Varna, del corridoio meridionale verso i Balcani.
In proposito non basterà certo il generico ottimismo di pochi “volontaristi” come il sottoscritto, ma occorre la convinta fiducia e la capacità di operativa concretezza della classe dirigente di un Paese che – affezionato alle promesse – sembra aver perso non poche delle sue pur legittime ambizioni, e la capacità di credere in una lettura concreta e realistica della migliore e più “volontaria” geografia, della più audace politica e della più prossima storia.
In un tale quadro, non si dovrà pretendere di inseguire finalità multiple troppo complesse – tecnologia, innovazione, ricerca, alta formazione – simili a quelle che appaiono adatte alla situazione di un centro-nord assai più avanzato e qualificato rispetto al nostro sud. Occorre forse prioritariamente puntare su opere pubbliche e progetti che abbiano effetti positivi per le produzioni concorrenziali, l’obiettivo più necessario al Sud.
 
Una strategia che voglia essere efficace per una ipotetica “rinascita” dell’area meridionale italiana, deve favorirne ogni reale progresso manifatturiero e occupazionale, e insieme contrastare con assoluta determinazione le prassi troppo diffuse dell’illegalità mafiosa, massonica, truffaldina, ormai presenti nell’intero Paese, e che non sono senza rapporti con le stesse maggiori imprese realizzatrici di opere di rilevanza nazionale operanti nel centro-nord, e non più solo nelle realtà dei territori meridionali.
D’altra parte non può certo bastare che i poteri pubblici si diano forme di programmazione e coordinamento maggiori che in passato, perché i termini della partita, che a parole si ha l’ambizione di voler giocare, sono ben più radicali di ogni possibile legittima attesa, essendo grande e ambizioso l’obiettivo di far “risorgere” il Sud dopo interventi e politiche che – salvo i brevi decenni della migliore Cassa per il Mezzogiorno – non sono andati oltre risultati economici oggettivamente modesti, che nel contesto delle certo non determinanti e poco strutturali politiche territoriali dell’Unione europa avrebbero meritato di essere conseguiti, e che invece hanno lasciato il sud italiano sur sa faim.
Temo che la “fame” di sviluppo del Mezzogiorno non sarà integralmente soddisfatta, ma che se l’impegno del governo, del ministro e delle Regioni meridionali saranno reali, come avvenne negli anni saraceniani dello “schema Vanoni”, l’impegno della Svimez possa aiutare la prospettiva della “coesione nazionale”.
 
Nino Novacco
Presidente Emerito di Svimez


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