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Salvadanai sovrani

La crisi finanziaria ed economica globale ha fatto emergere una nuova modalità di intervento pubblico nei Paesi industrializzati. Questi ultimi, dopo aver promosso un massiccio processo di privatizzazione interna alle proprie economie, in aggiunta agli interventi che sono costretti ad attuare per prevenire le insolvenze, accettano “salvataggi” finanziari operati da attori statali di Paesi emergenti. Questa “statalizzazione importata” da governi, per lo più produttori di petrolio e nella maggior parte con regimi politici autoritari, ha trovato nella congiuntura negativa la sua “giustificazione” di fronte all’opinione pubblica.
Se la crisi finanziaria crea nel breve periodo una percezione positiva del ritorno del “capitalismo di Stato” (o dello Stato-padrone), nel lungo periodo consolida le “patologie strutturali” alla base della crisi stessa (politiche economiche errate, assetti istituzionali insoddisfacenti, controlli inefficaci).
Il ritorno dello Stato-padrone, in questa nuova accezione, è analizzato dal professor Savona e dallo scrivente nel recente libro Il ritorno dello Stato padrone. I Fondi sovrani e il grande negoziato globale (per i tipi della Rubbettino, nella Collana Problemi aperti), dove il fenomeno viene considerato nella sua causa e nei suoi effetti. L’aver consentito l’introduzione di misure di liberalizzazione in Paesi emergenti con l’ingresso nella Organizzazione mondiale del commercio, senza richiedere il contestuale adeguamento delle regole monetarie di cambio, ha provocato l’accumulazione di ingenti portafogli valutari da parte di questi Paesi. Essi hanno tratto beneficio dalla possibilità di impedire rivalutazioni della loro moneta, operando di fatto “svalutazioni competitive”, con conseguente (e ingente) accumulo di riserve in dollari nelle loro Banche centrali. L’anomalia è nel fatto che, oggi, queste riserve valutarie di notevole entità vengono reinvestite nel capitale di rischio di aziende delle stesse economie avanzate che hanno permesso questa “distorsione” con i loro deficit di bilancia estera. Tali investimenti sono motivati ufficialmente da una ricerca di migliori rendimenti, ma de facto vanno alla ricerca di una maggiore influenza dei Paesi investitori in termini di equilibri geopolitici. Lo strumento usato per questi investimenti è il Fondo sovrano di ricchezza (Sovereign wealth fund, Swf). Secondo i “Principi di Santiago” (regole contabili internazionali, ad adesione volontaria, per l’attività dei Fondi sovrani), quattro elementi definiscono un tale strumento: la proprietà da parte di un governo nazionale; la strategia di investimento orientata verso attività finanziarie straniere; il proposito (investire fondi pubblici) e l’orizzonte di investimento (medio-lungo termine). Vi è, poi, una caratteristica implicita: la flessibilità. I Fondi sovrani, ancorché istituzioni pubbliche, appaiono più dinamici rispetto ai tempi del decision-making statale, tradizionalmente ingessato dai meccanismi democratici o reti lobbystiche. Secondo il Swf institute, i Fondi sovrani amministrano patrimoni complessivamente pari a circa 3,9 mila miliardi di dollari, di cui il 46% in capo a governi mediorientali e il 35% a governi asiatici. Questa stima (come qualsiasi altra) risente della scarsa informazione sui conti patrimoniali di tali fondi, i quali si limitano al rispetto di canoni minimi di trasparenza stabiliti dalla legge del Paese in cui operano. Questa riservatezza, pur rappresentando una prassi abituale per qualunque fondo di investimento privato, suscita elevata preoccupazione nel caso di fondi con la dominanza di governi nella loro struttura proprietaria. Per valutare il grado di trasparenza dei Fondi sovrani sono stati elaborati diversi indicatori, nessuno dei quali considera livelli “aggiuntivi” rispetto a quanto già richiesto per legge, fornendo peraltro risultati alquanto banali in termini di informazione per gli investitori. La trasparenza di un Fondo sovrano dipende, all’interno, dal livello di democrazia del Paese che lo amministra, e, a livello internazionale, dal trade-off tra efficacia ed entità dell’investimento. In Paesi più democratici la ricerca del consenso politico da parte del governo implica che vengano resi noti gli obiettivi di investimento di tali fondi governativi, dovendo essere allineati alle aspettative dell’elettorato. Viceversa, in Paesi meno democratici, la gestione del fondo può riflettere le preferenze di un ristretto gruppo di potere e comportare così una scarsa trasparenza.
A livello internazionale, invece, una maggiore trasparenza potrà diminuire l’efficacia delle strategie di investimento dei fondi, riducendo il vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti. Viceversa, un elevato livello di trasparenza aumenta la disponibilità di altri Paesi ad accettare investimenti dei Fondi sovrani. Gli sforzi a livello internazionale finora compiuti per sviluppare best practice e codici volontari di condotta da far adottare ai Fondi sovrani hanno prodotto, nell’ambito del Fondo monetario internazionale, l’elaborazione da parte dell’International working group on sovereign wealth funds (Iwg) dei 24 “Principi di Santiago” (ottobre 2008), e la Dichiarazione di Kuwait (aprile 2009) che ha creato l’International forum of sovereign wealth funds, forum permanente dell’Iwg, orientato a far identificare i Fondi sovrani come attori del sistema finanziario internazionale, e non come strumenti di condizionamento politico. La “diplomazia dei Fondi sovrani” mira a garantire le economie mondiali rispetto al rischio di un perseguimento di obiettivi geopolitici da parte dei Paesi detentori dei fondi stessi. Comunemente, questo tipo di ingerenza è identificato con l’acquisizione di competenze o tecnologie sensibili, ma ciò potrebbe verificarsi anche, ad esempio, tramite l’imposizione da parte di Paesi di religione islamica, detentori di Fondi sovrani, di modalità contrattuali rispettose del Corano. La richiesta del rispetto della Legge islamica (la Shari’ah) in contratti di importi notevoli (e relativi, magari, a fabbisogni energetici essenziali per l’occidente) può rappresentare il conseguimento di un obiettivo geopolitico con l’imposizione di una mentalità finanziaria e culturale profondamente differente da quella occidentale, e non sempre accettata da quella collettività. Lo sviluppo di istituzioni finanziarie islamiche nell’area del Golfo, nella regione mediorientale e nord africana e in Asia sta avendo forti riflessi sull’Europa in quanto, al contrario del passato in cui le banche arabe importavano expertise finanziaria dal Vecchio Continente, oggi sono le banche europee ad importare prodotti finanziari dal mondo arabo per rispondere a una domanda che proviene sia da grandi clienti arabi (che ricercano la massimizzazione dei profitti vincolata al rispetto di precetti religiosi), sia – in maniera sempre più significativa – dalla crescente popolazione musulmana presente in Europa. Il lavoro da me curato con Savona dedica un apposito e originale capitolo a questo importante sviluppo del mercato finanziario internazionale. A latere del recente G20 di Londra, il presidente della Islamic development bank (Idb), Ahmed Mohamed Ali, ha reiterato la richiesta, a nome sia della Idb sia dell’Islamic financial services board (Ifsb), di ottenere uno status di “osservatore” nell’ambito del G20 e del nuovo Financial stability board. L’accoglimento di questa richiesta è importante in quanto il “vero” negoziato sulle regole della governance globale non trova i suoi momenti risolutivi nei tavoli negoziali della diplomazia internazionale, ma nelle dinamiche di mercato dove i Paesi emergenti guadagnano continuamente posizioni. In base alle evoluzioni congiunturali, alle alleanze economiche e politiche e alle varie presidenze di turno, le decisioni più critiche e vincolanti vengono spostate sul tavolo nel quale si è in grado di esercitare più controllo. In tal senso, valorizzando un processo in corso (come quello sancito dalla Dichiarazione di Kuwait) o rispondendo ad un’esigenza rimasta inespressa nel corso del G20 di Londra (come quella della Islamic development bank), il G8 de l’Aquila potrebbe trasformarsi da un semplice momento di transizione tra il G20 di Londra e le riunioni di autunno (come rischia di essere considerato), a un momento di sostanza geopolitica rivelando la capacità degli Otto grandi della Terra di porsi come interlocutori credibili anche nei confronti delle istanze dei Paesi emergenti.


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