Nei giorni scorsi l’ambasciatore cinese a Roma ha usato parole diplomatiche ma chiare sulle mire di Pechino sull’isola. Il nostro Paese non può che schierarsi: in gioco c’è il nostro futuro democratico. L’opinione di Laura Harth
Non solto l’invito al Summit delle democrazie organizzato il 9-10 dicembre dal presidente statunitense Joe Biden, subito definito un “errore” dal governo cinese. Nell’accordo per la formazione del nuovo tedesco guidato da Olaf Scholz c’è – ed è la prima volta – un riferimento a Taiwan, con la richiesta di coinvolgimento formale in organismi internazionali come l’Organizzazione mondiale della sanità e un appello al mantenimento dello status quo sull’isola sottolineando che un’eventuale riunificazione non potrà che avvenire in modo pacifico e su espressa volontà di entrambe le parti.
Una presa di posizione che non è abbastanza secondo alcuni attivisti. Ma che, come rivendicato in un tweet da Reinhard Bütikofer, va letta con maggiore attenzione: “Non ‘speriamo’ che la Repubblica popolare cinese si comporti in modo responsabile, ma ci ‘aspettiamo’ che lo faccia. Il che è un modo diplomatico per dire che non lo fa”. Infatti, Pechino ha immediatamente esortato il nuovo governo di coalizione tedesco ad attenersi alle precedenti politiche amichevoli.
Sebbene nessun governo democratico si sia spinto a rescindere formalmente del principio cosiddetto “Una Cina”, è evidente che la crescente centralità di Taiwan nelle relazioni internazionali è di per sé un invito a leggere tra le righe delle dichiarazioni ufficiali. Lo dimostrano anche le sempre più furiose reazioni di Pechino: da accuse e sanzioni a individui e Paesi, alla solenne promessa di una persecuzione giudiziaria a vita per chi sostiene l’indipendenza dell’isola democratica o addirittura l’intervento militare.
In giorno scorsi, Li Junhua, ambasciatore cinese in Italia, ha ribadito all’Agenzia Stampa Italia: “Siamo disposti ad impegnarci insieme con tutti i partiti, gruppi e individui di Taiwan per condurre un dialogo e una consultazione sulla base politica dell’adesione al Consensus 1992 e dell’opposizione all’idea dell’indipendenza di Taiwan. Compiremo il massimo sforzo per la prospettiva di una riunificazione pacifica. Tuttavia, se le forze separatiste per l’indipendenza di Taiwan continueranno a provocare o addirittura supereranno la linea rossa, dovremo adottare misure decisive”.
Ovviamente, sempre – ma non tanto – tra le righe vi è il sottinteso che in ogni caso la piena incorporazione di Taiwan sotto la Repubblica popolare cinese è l’unica strada percorribile (“realizzare la completa riunificazione della patria è l’aspirazione comune e la sacra missione di tutti i figli e le figlie della nazione cinese”), rendendo quindi la condizione di una mutua ed espressa volontà di entrambi le parti nell’accordo di governo tedesco agli occhi di Pechino pericolosamente vicina alla summenzionata linea rossa.
Letture da tenere presente quando leggiamo il listino della spesa che lo stesso ambasciatore Li Lha mandato all’Italia attraverso le pagine del China Daily sempre in data del 23 novembre: “In primo luogo, i due Paesi dovrebbero sostenere il rispetto reciproco. Dovrebbero cercare il più grande denominatore comune, coltivare la loro tradizionale amicizia e rispettare i reciproci percorsi di sviluppo scelti dalla loro stessa gente. (…) I due Paesi dovrebbero anche promuovere congiuntamente la cooperazione nel quadro della Belt and Road Initiative a beneficio dei due popoli. (…) I Pue paesi dovrebbero sostenere il reciproco sostegno (…) [e] la cooperazione multilaterale. Dovrebbero svolgere ruoli più costruttivi negli affari internazionali rafforzando il coordinamento e la comunicazione nell’ambito di quadri multilaterali”.
Riprendendo il “il che è un modo diplomatico per dire che” di Bütikofer, si tratta di un evidente invito a non seguire l’esempio dei Paesi alleati dell’Italia che in più occasioni non si astengono dall’assumere posizioni nette nei confronti di Pechino e di mantenere una posizione che ne ammorbidisce l’impatto come pare sia stato il caso per esempio per la dichiarazione congiunta del G7 di Carbis Bay sul lavoro forzato, dove l’Italia sarebbe stato uno dei due Paesi a mettere il veto sull’espresso riferimento alla Repubblica popolare cinese.
Nel crescente scontro ideologico Taiwan è rapidamente diventata “la nuova Berlino”. Urge a proposito ricordare che è passato soltanto poco più di un anno da quando quel titolo venne ripetutamente assegnato a Hong Kong. Sapendo come è tristemente finita tale storia con la flagrante violazione degli accordi internazionali sulla base di una “volontà popolare” duramente imposta da Pechino, c’è da auspicarsi che nei prossimo appuntamenti internazionali – a partire dal Summit per la democrazia – l’Italia sappia schierarsi convintamente dalla parte giusta della storia. In gioco il nostro futuro democratico, preferibilmente senza caratteristiche cinesi.
(Foto: Twitter, MOFA_Taiwan)