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La lezione dello strano caso dell’Inpgi alle altre casse previdenziali

Il caso Inpgi, prima che invelenire i rapporti tra categorie professionali e opinione pubblica, può aprire una serena riflessione sui vantaggi di un unico grande ente per la previdenza, all’interno del quale mantenere alcuni fondi, a garanzia delle specificità, ma nella certezza della solidarietà assicurata da regole comuni e dall’elasticità fornita dai grandi numeri

Lo strano caso dell’Inpgi che viene assunto nel cielo dell’Inps si traduce spesso in una sterile polemica pro o contro i giornalisti e i loro veri o presunti privilegi. Il nostro è un Paese di tifosi. Dove il “pro” o il “contro” sembra esaurire ogni confronto. Sarebbe invece utile cogliere dalla vicenda finale della Cassa di previdenza dei giornalisti una lezione più generale, che potesse valere per tutto il sistema della previdenza obbligatoria, anche quella fin qui affidata a Casse private (o privatizzate), collegate all’esistenza di Ordini professionali.

Se volessimo cogliere un vizio di origine potremmo fermarci qui: agli ordini professionali. Contro l’esistenza di professioni ordinistiche ci si scaglia spesso, salvo poi – quando si arriva al dunque, come nel caso del recente Dl Concorrenza – piegare il capo alle riserve attribuite a notai o giornalisti, architetti o psicologi. Senza gli ordini professionali un pezzo del problema sarebbe risolto, anche perché molti professionisti svolgono la loro attività come lavoratori dipendenti; quindi, potrebbero ricadere naturalmente nelle grandi braccia dell’Assicurazione generale obbligatoria garantita dall’Inps.

Ma gli ordini esistono, e nessuno sembra volersi attribuire l’onore (e l’onere) di promuoverne l’abolizione. Questo basta per avere una ventina di casse previdenziali per un totale di poco più di un milione e mezzo di professionisti?

Allora il criterio residuo è quello dei conti e della previsione attuariale del bilancio attesa a 50 anni. La logica temporale aveva un senso nel momento in cui la continuità del lavoro era la condizione naturale. Il World Economic Forum ormai lo ripete da qualche anno: il 65% dei bambini che oggi frequenta le scuole elementari farà lavori che ancora non esistono. In un contesto così che senso ha proiettare i conti di una cassa previdenziale composta da persone la cui professione tra 10-15 anni non esisterà più, o sarà comunque tutt’altra cosa?

Non a caso i calcoli attuariali hanno bisogno di grandi numeri, non quelli che possono esibire molte Casse. Undici degli enti previdenziali privati contano meno di 50mila iscritti. Solo tre superano i 200mila iscritti. La fragilità dell’orizzonte previdenziale – in un sistema a ripartizione – è strettamente connesso anche a questo dato. Infatti, solo dieci degli enti previdenziali privati hanno un saldo attivo 2020 superiore ai 100 milioni. Cinque enti hanno registrato uno sbilancio: uscite per prestazioni più alte delle entrate contributive. Si dirà che il 2020 non è un anno giusto per fare ragionamenti di lungo periodo. O no? Forse è proprio a partire dal 2020 che dovremmo rivedere i conti di tutte le Casse, in prospettiva.

Dobbiamo aspettare che i conti diventino drammatici e irrecuperabili per scaricarli come onere per la collettività? Dobbiamo aspettare che si alzi qualche bandiera bianca per poi “arrendersi” all’Inps e far pagare i conti alla collettività? E qui tornano in scena i giornalisti e l’Inpgi. Hanno buone ragioni coloro che sostengono che proprio le regole dell’Inpgi e il peso sopportato per gli ammortizzatori sociali del settore editoriale hanno deciso il bilancio fallimentare dell’Istituto. Questo non sposta il ragionamento: perché aspettare di consegnare all’Inps i conti distrutti di un ente invece di progettare una razionalizzazione dell’intero comparto Casse? Tranne le prime cinque, per patrimonio e saldo di bilancio, quasi tutte le altre Casse mostrano cedimenti strutturali, sia per la difficoltà di immaginare nuovi contribuenti, sia per dover garantire prestazioni sempre più numerose e onerose.

C’è chi ha proposto di mettere in agenda un Fondo Inps per i professionisti, per progettare una transizione che sembra inevitabile, e che l’Inpgi avrebbe soltanto avviato, con tutte le luci che si accendono su una categoria che si ama o si odia.

L’Inps ha una lunga storia di “assorbimenti”: dallo Scau all’Inpdai, dall’Ipost all’Inpdap. L’emergenza non è stato sempre l’unico criterio. L’operazione Inpdap ed Enpals decisa nel 2011, che ho avuto l’onore e l’onere di guidare, si ispirava a un preventivo obiettivo di razionalizzazione. Certo, azzerare consigli di amministrazione e dirigenze è doloroso soprattutto per consiglieri di amministrazione e dirigenti. La pensione è una cosa seria, riguarda il futuro delle persone nel momento della loro fragilità. Dovrebbe venire prima dei miopi calcoli di un emolumento per un ruolo amministrativo o gestionale.

Credo che il caso Inpgi, prima che invelenire i rapporti tra categorie professionali e opinione pubblica, possa aprire una serena riflessione sui vantaggi di un unico grande ente per la previdenza, all’interno del quale mantenere alcuni fondi, a garanzia delle specificità, ma nella certezza della solidarietà assicurata da regole comuni e dall’elasticità fornita dai grandi numeri.

 

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